Venerato e ricordato per la folgorazione dei suoi fasci di luce, in cui avvolgeva le sue tele, ritagliava i personaggi in esse contenuti, inventava e innovava la tecnica pittorica e luministica del suo tempo (e oltre), Michelangelo Merisi da Caravaggio viene acclamato da sempre come il maestro della luce, dell’inquietudine moderna, della vita sregolata e “maledetta”, di quell’immortalità di passione e pensiero che lo rende attuale ed eterno.
Eppure, a 400 anni dalla sua morte, nell’anno del centenario appunto, alcune idee vengono riviste e rimesse in gioco. Escono fuori nuove suggestioni, studi e indagini che portano alla luce un Caravaggio in qualche modo meno legato alla sua etichetta di pittore maledetto, mosso invece da inquietudini anche religiose, mistiche, dove accanto alla luce comincia a emergere un concetto nuovo: quello del buio, dell’ombra alle spalle dei suoi protagonisti luminosi. L’idea del Nero.
Sta qui la base della ricerca e dell’operazione drammaturgica e teatrale costruita da Laura De Luca, in collaborazione con il Comitato Nazionale IV Centenario della morte di Caravaggio, che ha portato al Teatro Dell’Angelo, un “arbitrario incontro” con il Maestro, ma soprattutto con la parte oscura della sua arte, quel Nero da lui cercato tutta la vita, materializzato per il breve spazio di un colloquio. Nasce infatti dal modello radiofonico delle “interviste impossibili” questo confronto a tre, dove si affrontano in scena, per un’ora di domande e risposte, che non tarda a trasformarsi in una confessione e un viaggio intimo, l’Intervistatrice, Caravaggio e il Nero.
Emerge un testo che è andato concentrandosi sui chiaroscuri, così come il pennello di Michelangelo Merisi andò inseguendo luci ed ombre nel suo lungo percorso creativo. Perché il Nero dunque? Caravaggio inseguito dalla propria stessa fama di ribaldo, attaccabrighe, assassino perfino, proteggeva in realtà la parte più nascosta e più vera di sé, che lo voleva vicino più di quanto si pensi a una religiosità e a un’idea pura di vita e di arte ricercata fortemente, anche se mai veramente fatta propria. Nasce qui un antico e muto colloquio con il buio, con quella non finitezza di figure e corpi che da esso emergono naturalmente per essere consegnati alla luce, ma come riflesso di quell’ombra permanente che li accompagna in tutto il loro percorso. Nel buio accadono e acquistano senso tante cose: la concezione piena dell’amore, la ragione dell’identità completa dell’Artista che non può consegnarsi ai posteri, alla propria stessa mortalità, perché in fondo non è mai veramente nato.
È questa l’idea più affascinante di tutta la concezione drammaturgica della De Luca, enunciata dalla voce ineffabile di Herlitzka che, come il suo personaggio, rimane nascosto, invisibile per buona parte della rappresentazione, salvo poi scegliere di comparire, quasi improvvisamente, per iniziare un colloquio riservato con il suo creatore, mentre è il turno dell’Intervistatrice di rimanere nell’ombra. Sono indubbiamente i momenti più belli, in cui si coglie il corpo e l’anima di quello che avrebbe potuto essere un evento teatrale di rilievo, servito dai suoi attori: il sanguigno e iroso Caravaggio, così voluto e interpretato da Antonello Avallone, che non riesce purtroppo ad uscire da una bidimensionalità di emozioni e intenzioni salvo qualche momento di introspezione più sentito, più vero. Gli si contrappone, per opposto tutto profondità e mistero, la voce e l’indiscusso mestiere di Roberto Herlitzka, cui basta poco per dare rilievo, credibilità e sentimento a quello che non è neanche un personaggio quanto un’idea, un tormento, un fantasma evocato e mai più respinto.
Ma inevitabilmente, come un chiaroscuro dunque, come un’opera incompiuta o non pienamente abbozzata, rimane irrisolto il senso di quest’operazione, la resa non facile, diciamo quasi “impossibile” di un adattamento radiofonico, forse più adatto all’orecchio che non alle tavole concrete del palcoscenico, che evidenziano senza pietà la mancanza di omogeneità, in cui le singole parti – le proiezioni spezzate delle tele caravaggesche, le musiche forti e contrastanti di Luis Bacalov e degli Ecoesthree, le coreografie di Fabrizio Laurentaci e di Flaminia Candelori, inserite abbastanza innaturalmente – mostrano i loro limiti di essere appunto elementi singoli, non fusi con un’idea centrale di regia, di messa in scena.