Ci sono due ragazzi, Abdul e Naomi, chiusi un bunker sotto un albergo. Sopra di loro la guerra a colpi di bombe umane e di rappresaglie organizzate devasta la terra e i loro popoli. Anche loro fanno parte di questo gioco infernale e hanno la sfortuna di essere nati dalla parte sbagliata, tutti e due. È per questo che in questo luogo e in questo tempo fatto di notti appassionati, di disperati amplessi e di continue discussioni hanno deciso di chiamarsi fuori da quella realtà imposta loro dalle famiglie e dalla cultura.
È un sogno, un gioco, il tentativo inutile ma convinto di costruirsi uno spiraglio di felicità che duri almeno un altro giorno, magari un altro mese. Come Romeo e Giulietta verrebbe da dire, o forse, più semplicemente, come una qualunque coppia di innamorati che non crede veramente che l’odio sia possibile quando è altrettanto possibile un amore vero e sincero come il loro.
Ma il teatro “non racconta solo favole”, come avverte l’autore Mario Moretti: la realtà bussa alla loro porta ogni giorno, con maggiore insistenza, portando con sé dubbi e contraddizioni sempre più forti, fino all’appello finale, cui risponde per primo Abdul, ma che verrà trasformato nel sacrificio finale dalle poche parole evocate dalla voce fuori campo di Naomi.
È un testo complesso e ambizioso quello che il regista Claudio Boccaccini ha reso con una scenografia essenziale e incombente, in cui lo scantinato dell’hotel è mostrato come una barricata di casse poste le une sopra le altre, con i pochi oggetti che servono ai due rifugiati - un letto, un tavolo, qualche pentola per cucinare. In quello spazio del tutto rinchiuso su se stesso si sviluppa un’azione in cui i gesti si susseguono ai silenzi, le parole alla musica che apre e chiude come un siparietto i momenti rubati alla vita ‘di sopra’.
C’è molto da dire sui due attori impegnati in questa prova tutt’altro che scontata: se la Chico ha dalla sua la grazia dei movimenti e la forza dell’espressione, è un sorprendente Siciliano quello che dà vita a un personaggio tutto ombre e dubbi, battute e paure. Abdul e Naomi escono fuori vivi e visibili, impegnati a reggere l’equilibrio non sempre facile tra intenzioni e ideologia, tra utopie e possibilità. Ma non si sente il rumore fastidioso del tempo che passa e lo spettatore è trascinato nella loro attesa dell’ineluttabile, attirato dalla concretezza dello spazio – disegnato con luci morbide e sensibili – e forse dalla speranza che dietro le parole arrivi finalmente una luce, una spiegazione per qualcosa che continua a non averne.
La luce verrà, sarà quella di un timer, anche se non vi sarà rumore nel passaggio, nel gioco dei due innamorati, dalla vita al martirio. Questa volta non nel nome di Allah _
Roma - Teatro Dell'Orologio Sala Grande
9 marzo 2007
Visto il
al
Nuovo Sala Gassman
di Civitavecchia
(RM)