Quando Albert Camus, nel 1937…

Quando Albert Camus, nel 1937…
Quando Albert Camus, nel 1937, inizia la sua ventennale stesura di “Caligula”, di fatto trasforma e reinventa quello che fino ad allora era conosciuto come uno dei personaggi più estremi e grotteschi della storia imperiale di Roma. Nell’ottica romantica del letterato francese, Caligola assurge a nuove vette divenendo una potentissima figura teatrale, pura e moderna nella sua disperata sete di amore e oblio. Ogni compagnia, teatro o corrente prima o poi provano il desiderio di mettersi in discussione con un personaggio il cui successo è dovuto proprio alla sua estrema trasformabilità. La fortuna di Caligola giace nelle profondità dell’essere, nella complessità dei propri pensieri ed azioni, che quasi mai si svolgono coerentemente: in questo contesto ogni scenografia, ogni idea di regia divengono possibili e aprono prospettive originali, soprattutto se giocate in spazi aperti e non convenzionali. Il progetto multilinguistico che vede unite una compagnia italiana e una francese ha permesso una lettura di Caligola secondo un ulteriore sdoppiamento: quello della lingua. Caligola, interpretato dall’intenso Andrea Cramarossa, si muove, parla e tace di fronte a pochi, isolati dignitari: più che alle folli girandole di corte, ai complotti e al delirio di onnipotenza e solitudine, assistiamo soprattutto alla complessità dei (minimi) rapporti interpersonali che l’imperatore conobbe nella sua breve vita. Intorno ruota una regia di luci, abiti sontuosi e oggetti che sembrano richiamare una scena orientale, un grande apparato nel quale viene a mancare la cosa principale: l’umanità e la com-partecipazione. Ogni personaggio gioca la propria parte in solitudine, anche e soprattutto quando dialoga con l’imperatore, il più delle volte intento a un colloquio muto e angoscioso con le proprie voci interiori. Un uso straniato dunque della comunicazione, che si sdoppia negli accenti folli, talora ironici, talora disperati di Caligola e nel concertato di voci dei suoi compagni. Si alternano qui la voce accorata di Lepido, l’amico di sempre, e il tono misurato e composto di Giunia (interpretata efficacemente dalla stessa regista), la nutrice che si cela tra le ombre di un destino già scritto. Giungono poi, in contrasto quasi dissonante, le poche parole pronunciate da Cesonia, la compagna non amata, che si esprime nella sua lingua madre francese e fa così sentire la propria divisione dal gruppo e al contempo l’ineluttabilità ad appartenervi. La fine arriva inevitabile e preannunciata, proprio per mano dell’amante Lepido, il cui pugnale porterà finalmente a Caligola la luna, ovvero la pace cercata invano con l’omicidio e l’annientamento di sé. La regia congiunta di Mariagiovanna Rosati Hansen e Matteo Ziglio ripropongono la profondità della visione psicologica dell’autore francese unita ad esperimenti visivi e uditivi, per cui il pubblico sente e vede voci e luci come fosse il doppio di Caligola, riflettendosi al di là dello specchio in cui il protagonista si guarda, a cercare l’immagine altra, quella di Drusilla, l’amore perduto e mai più ritrovato. Una certa freddezza e lentezza di ritmo emotivo rendono a tratti discontinuo il gioco tra i personaggi e l’ambiente circostante e spezzano il cerchio magico altrimenti perfettamente evocato dalle cose e dalle visioni, piuttosto che dagli esseri concreti che si muovono sulla scena. Roma, 7 ottobre 2008 Teatro Abarico