Se a Nekrosius per rappresentare uno stagno ne "Il Gabbiano" di Cechov era bastato uno secchio d'acqua, Carmelo Rifici per riprodurre il lago di Strausberg in "Materiali per Medea" del tedesco Heiner Müller , malgrado la ristrettezza dello Spazio Tertulliano, ha voluto costruire sul palco una vera piscina.
Per Carmelo Rifici questo è il secondo incontro con la sacerdotessa barbara della Colchide. Il primo è avvenuto due anni fa durante l'allestimento di "Médée" di Luigi Cherubini al Ponchielli di Cremona. Il testo che egli ha scelto per la sua seconda Medea è una trilogia composta dai brani incompiuti di Heiner Müller, celebre drammaturgo e intellettuale tedesco, per molti anni direttore artistico del teatro brechtiano Berliner Ensemble e uno dei pochi autori teatrali a essere insignito il premio Europa per il Teatro.
Le idee di Müller hanno avuto una grande influenza sulla vita teatrale europea del XX secolo e non solo perché la sua voce si levava dall'altra parte del muro di Berlino. I problemi da lui sollevate assieme alle metafore plasmate da un materiale crudo e sanguinante, erano universali e quasi sempre riguardavano il rapporto dell'umanità con il proprio passato e la responsabilità di essa delle proprie azioni, frutti amari della sua stessa civiltà. Più che una ricerca per il teatro, la sua è stata un'indagine scientifico-filosofica sugli archetipi della personalità e del comportamento. Per questo la maggior parte dei testi che ha stilato e messo in scena rappresentano la trascrizione e la ricompilazione di antichi miti. Scritti con una specie di paleolinguaggio, composto da semplicissime costruzioni linguistiche e locuzioni prive di segni di interpunzione, questi possono sembrare poveri di anima e di soggetto. Si riversano sull'ascoltatore come potenti, primitivi fiotti di lava, senza inizio o fine, senza un ordine ritmico e motivazioni psicologiche precise, mentre i personaggi, conosciutissimi Amleto, Filottete, Edipo, dal punto di vista del buonsenso dicono delle vere enormità. Tuttavia l'energia particolare e il volume extra contestuale delle parole che costituiscono le sue opere, da sempre attraggono i registi, concedendo loro ampie possibilità d'interpretazione.
I brani che compongono "Materiale per Medea" sono stati scritti in periodi diversi. Apparentemente legati da un filo conduttore - quello del dramma della donna moderna – in realtà portano nel loro interno una tragedia che non può essere imputata né al sesso né alla razza, ma appartiene a una categoria universale, come il concetto stesso della civiltà con tutti i suoi irrisolvibili contrasti con i quali l'uomo è costretto a convivere.
L'ultimo lavoro di Rifici è ricco di metafore e tutte quante richiamano le associazioni più varie. Vi troviamo il contesto pagano (la nudità che simbolizza l'annientamento di ogni genere di barriera che separa l'uomo dal mondo, dai vestiti al testo della pièce) e l'interazione delle immagini video con l'azione scenica (il monologo dell'attrice viene accompagnato da una videoregistrazione che cambia strada facendo: una sacerdotessa nuda che sta per entrare nella fonte sacra; un collage composto da videoriprese di sesso crudele e venale; un Giasone che si allontana assieme alla sua nuova amante; una platea piena di spettatori che fissa Medea mentre quella vomita le parole di accusa verso suo marito traditore…) e persino una vera piscina piena d'acqua con il modellino di una nave in mezzo che potrebbe rappresentare sia il lago di Strausberg, contaminato da preservativi e assorbenti, sia il Mar Nero con l'Argo che porta Giasone lontano dalle rive della Colchide. E anche se i saggi insegnano che abundare è meglio che deficere, in questo caso la copiosità di simboli purtroppo non gioca favore della regia. Prima di tutto perché i numerosi sostegni scenici (la vasca, il modellino, il tavolino con le stoviglie, le pendenti strisce di plastica, il piedistallo dove Medea si esibisce in una danza erotica), oltre a creare per la protagonista una specie di rifugio, soffocano l'arcaica semplicità dell'antico mito e poi perché, come spesso accade con i testi di Müller, spostano l'attenzione dal contenuto delle parole agli elementi estrinsechi della sua drammaturgia.
Interpreta la Medea del XXI secolo Mariangela Granelli. Le passioni della sua eroina – le speranze e le delusioni, l'amore e l'odio per Giasone, la sete di vendetta, la gioia e i tormenti della maternità - sin dal primo momento sono infuocate al massimo. La sua voce spicca il volo nella rarefatta atmosfera pregna di furia e di disperazione e ogni parola viene scoccata con forza come una saetta arroventata. Involontariamente viene da chiedersi come suonerebbero le sue accuse nella lingua di Müller. Probabilmente ancora più duramente. Questa Medea, sacerdotessa e vittima nello stesso tempo, è stanca e devastata dalle fiamme che, divorandola dall'interno, la portano alla disgregazione, spirituale e fisica. In un istante nei suoi occhi si accende il fuoco di provvidenza e un attimo dopo quello della pura follia mistica; in un istante lei si mostra come una vestale e già un istante dopo come una meretrice.
E anche quando lascia cadere i vestiti, nemmeno per un istante il suo corpo nudo diventa un oggetto di desiderio. Cosa c'entra il corpo? Non c'è nulla di catartico nella sua nudità. Siamo chiamati per assistere a un olocausto solo come spettatori. Non come partecipanti. Non per compatire, ma per vedere come sotto i nostri occhi, solenne e crudele, il mito s'impossessa della realtà.