Prosa
MEMORIE DI ADRIANO

Cosa si potrebbe dire che …


	Cosa si potrebbe dire che …

Cosa si potrebbe dire che non sia stato già detto su Memorie di Adriano? Soprattutto dopo quasi 30 anni di repliche e oltre mille rappresentazioni, in Italia e all’estero? Niente di veramente nuovo, probabilmente. La bellezza e la profondità del testo ne fanno un’opera ancora estremamente affascinante, impermeabile allo scorrere del tempo, nonostante il romanzo della Yourcenaur sia stato scritto più di 50 anni e poi ri-adattato per farne un monologo teatrale.

Ero Dio semplicemente perché ero uomo.’ La frase è pronunciata da Adriano nei suoi ultimi giorni, mentre ripercorre gli episodi salienti di una vita costellata di successi, ma anche di altrettante incertezze. Una frase che, in un certo senso, ricorda un tratto caratteristico delle religioni politeiste, proprie di culture come quella greca nelle quali l’identificazione tra uomo e divinità non era così infrequente. Quella stessa civiltà che l’Adriano adolescente impara ad amare e alla quale si ispira anche per la costruzione di Roma. “Quasi tutto quello che gli uomini hanno detto di meglio, è stato detto in greco”. Quasi profetico, anche se apparentemente retorico, in questi giorni in cui si discute delle sorti di un paese che rischia di essere dimenticato e messo ai margini di un’Europa che, senza la Grecia, non sarebbe mai esistita, per ammissione persino di taluni economisti.

Sulla scena, uno dei più longevi attori italiani, protagonista unico e indiscusso dell’ormai celebre condottiero romano: Giorgio Albertazzi.  Un interprete che solo dopo averlo osservato - non solo ‘visto’ dal vivo - si capisce perché sia definito ‘imperatore’ del teatro italiano, al di là di ogni frettolosa definizione giornalistica. Talmente unico che non serve una particolare scenografia, ne’ forse personaggi secondari a fare da contorno o ad arricchire lo spettacolo.  L’ingresso, sebbene non più vigoroso e carico di energia come un tempo, è ugualmente trionfale, così come quasi accecante è  il bianco della tunica morbida e vaporosa che lo consacra, anche visivamente, sovrano indiscutibile del palco e del ruolo. Ed è soprattutto nella seconda parte - dopo un inizio poco emozionante,  in cui sembrava ostico trovare la chiave giusta per ingranare e partire - che emerge tutta la potenza che ci si aspetta di trovare in un monologo di questo tipo: il racconto dell’amore tormentato per il giovane Antino, il ricordo della passione, la soggezione della bellezza, “il bisogno di ferire la tenerezza ombrosa” per combattere la paura di dipendere da qualcuno.  Quello dell’Albertazzi 92enne è un Adriano maturo ma non cinico, piegato dalla malattia e dall’età ma ancora lucido e riflessivo, prepotente quasi nella sua bravura, non ostentata perchè vera e reale, universalmente riconosciuta e riconoscibile. Un seduttore consapevole del proprio potere ma poco ‘pavone’, forte di un fascino che non è da tutti e che, anche a teatro, diventa quell’inevitabile fascinazione a cui è difficile resistere.

Visto il 23-06-2015