Indicata come una delle commedie più riuscite di Shakespeare, per la perfetta tecnica teatrale, la leggerezza, il ritmo e il senso delle scene, Molto rumore per nulla è anche gioco del doppio, dello specchio, dove ogni personaggio è il complemento e il lato oscuro dell’altro, e a un dialogo amoroso ne corrisponde uno di vendetta, al brio delle schermaglie tra fidanzati si contrappongono le dissonanze oscure del rancore e dell’ambiguità.
È proprio alla luce di queste venature che i personaggi di Ero e di Claudio, di Benedetto e di Beatrice, come quelli di don Giovanni e di don Pedro, acquistano sfumature più ricche, tridimensionali nella loro profondità. Non è solo la storia di un ritorno a casa, di una progressiva tessitura amorosa tra la coppia ‘ufficiale’ di Ero e di Claudio e quella meno probabile di Benedetto e di Beatrice, quella che vuole raccontare Shakespeare, ma soprattutto la complessità dei sentimenti e delle relazioni che, come le facce di una medaglia, passano dal bianco al nero, dal sole alle variazioni demoniache della notte e dell’intrigo, senza soluzione di continuità.
In quest’ottica peculiare, con una rilettura che sposta l’ambientazione dalle corti italiane al jet-set americano raffinato e un po’ retrò, dalla Sicilia alla Florida, il regista Matteo Ziglio ha concepito il suo Shakespeare. La caratteristica che evidenzia maggiormente questa messa in scena è proprio il ‘raddoppio’ dei personaggi maschili: così don Pedro, l’allenatore altruista e vincente che riporta a casa la sua squadra, al volger di una luce, di un’improvvisa contrazione del corpo e della voce, si cambia nel suo fratello cattivo, un don Giovanni in cerca di rivalsa e di vendetta. Come altrettante facce incrinate di uno specchio guasto, alla luce di un giardino fiorito di giorno, e contaminato da strane luci e da torbidi mormorii di notte, si rivelano i suoi compagni, Benedetto, ironico ma non immune alle spine d’amore, e Claudio, l’innamorato felice e devoto, entrambi destinati a subire lo stesso maleficio e a rivelare nell’alterazione delle fisionomie e degli sguardi i loro gemelli malevoli, Borracio e Corrado, complici dannati dei loschi intrighi che concepisce don Giovanni per mandare a monte quelle nozze che suo fratello Pedro tenta di propiziare così assiduamente.
Se agli attori è richiesto un costante lavoro di flessibilità nel cambiare repentinamente faccia e interpretazione, le attrici, impegnate nei ruoli di Ero, la sposa promessa prima e ripudiata poi; di Beatrice, la cugina e compagna di schermaglie di Benedetto; di Margherita, la cameriera anch’essa succube delle atmosfere notturne, debbono sostenere quella leggiadra e arguta impalcatura di dialoghi e leggerezze che hanno fatto la fortuna della drammaturgia shakespeariana.
L’uso evocativo di una scena semplice dove poche sedie di paglia e qualche accessorio fanno da cornice alla cornice stessa, ovvero una grande pianta dalle fronde artefatte e smisurate che di notte viene girata a rivelare la sua vera natura di maschera deformante di anime e desideri, si fa strumento per le prove che i sei attori hanno dato in questa pièce.
Ci preme innanzitutto segnalare l’intenso don Pedro/Giovanni cui Emiliano Paglionico, qui al suo debutto, regala una grande sobrietà ed umiltà nell’accompagnare le sfumature più complesse di un personaggio così tormentato e ambiguo. Vi si accompagnano le interpretazioni efficaci, senza sporcature, di Domenico Diele e Francesco Maccarinelli, più sfaccettati e immediati nei panni del bel Claudio, semplice e diretto, e di Benedetto, che Maccarinelli ha saputo cogliere anche nei suoi aspetti meno solari e immediati.
Bella la diversità di interpretazione sul versante femminile, dove Ero viene resa con competenza e fascino da Giulia Di Quilio, accompagnata con intelligenza e divertimento da Veronica Renda, che dà una caratterizzazione efficace alla cameriera Margherita. Buona la prova di Monia Rosa, chiamata a rivestire la sua Beatrice di un colloquio molto moderno nei suoi toni e nella sua postura, e per questo riuscito e accattivante.