Riscrivere Eudardo per Latella non passa dalla forma - il testo del grande Maestro napoletano resta inalterato e seguito alla lettera - ma da una profonda revisione concettuale dell'opera. Latella condisce di segni precisi e soluzioni che affondano le radici nel contesto assolutamente teatrale, fortemente contemporaneo, fatto di prese di posizione, di decisioni forti, a volte eccessive, altre criptiche, ma è chiaro che per affrontare l'impresa di un classico drammaturgico italiano, cementato nella parodia di se stesso, è necessario infrangere vigorosamente la teca di vetro in cui è stato inserito, sfera di cristallo, che come decorazione natalizia, addobba i teatri di mezza Italia da decenni. Ed è per questo che il coro degli attori disposti immobili in fila, vestiti a lutto, di un nero esiziale, davanti ad una gigantesca stella cometa che occupa tutto il proscenio del palco, annunciano e descrivono in maniera pedissequa tutta la prima parte dell'opera, in mimesi esatta delle versione ufficiale di Eduardo, ripresa dalla RAI e rimasta nel tempo lo stampo originario dal quale tutte le altre non sono state che pallide emanazioni.
Luca Cupiello (un incredibile Francesco Manetti) descrive, parla e scrive, riscrive ogni singolo gesto, ogni parola, imitando e infrangendo, cancellando e ripercorrendo, come scrostando per l'ultima volta il volto di un Eduardo che desidera essere rianimato: Cupiello-Eduardo con il pugno incide ogni parola nell'aria, accenti inclusi, e sono proprio questi che fanno tremare tutti i personaggi chiamati alla vita.
La lunghissima prima parte è un marcare evidente, uno spartiacque preciso, un rendere omaggio polverizzando e focalizzando l'attenzione sul fatto che non ci troviamo di fronte ad una commedia, ma al ritratto profondo, pulsante e incredibilmente sempre vivo delle affezioni umane, dell'ironica sorte della disperazione, della volontà di passare oltre, agognando un futuro migliore. Latella vuol farci capire che Eduardo è, come ammesso spesso dal regista, il Cechov italiano: le sue opere non sono commedie comiche, ma sono l'incisione avveduta di una sensibilità rappresentativa senza eguali in Italia, che pone Eduardo fra i più grandi drammaturghi della storia del teatro.
Esaurita la prima parte, Latella sventra il teatro, nudo, fino al muro portante profondo, senza fondale, senza quinte, senza arlecchini, graticce a vista, gli attori spesso manovrano sul palco un grande faro a rotelle; totale, disarmante visione, senza difese, Concetta, la moglie di Luca Cupiello, interpretata dalla magistrale Monica Piseddu, traina il carro della vita, come Madame Courage di Brecht, protegge e dirige la famiglia con determinazione matriarcale, ma questa diligenza nel suo luttuoso nero è anche la teca trasparente dove il Cupiello-Eduardo riscrive continuamente la tragedia dell'ironia beffarda, del fallimento e del passaggio di testimone alle nuove generazioni, in un futuro incerto e senza punti fissi, laddove qualcosa si è rotto nella rassicurante ripetizione di un passato borghese ed il nuovo spazza via ogni tranquilla risposta alle insidie della felicità. Il presepio non basta a mascherare le fatiche di una vita ai margini, priva di libertà, dove le menzogne della meschinità mediocre non possono più traghettare le anime oltre i propri supplizi, e proprio la cena della Viglia, il momento della riunione della Famiglia, il trionfo dei valori cristiani e positivi di una società contadina arcaica, diventa la tomba di ogni prospettiva futura, di ogni speranza di replica. Il presepio è infranto e ci tocca ricominciare da capo, come ripete ossessivamente la voce registrata, lontana, riprodotta del defunto Eduardo.
La terza parte è quindi la morte apparecchiata per la nascita, il Requiem di Cupiello-Eduardo passa attraverso l'annuncio dell'angelo calato dall'alto che rende possibile cominciare a scrivere una nuova vita per l'Opera del Maestro, cantando le lodi della morte imminente per una rinascita che passa dagli alti valori artistici dell'arte teatrale italiana. Dal melodramma alla lirica il crescendo emotivo è trasfigurato con un cambio radicale di registro, che forse non tutti gli attori del cast riescono a reggere dal punto di vista tecnico, e apre lo spiraglio al "sì" di Tommasino (un Lino Musella tagliente, a volte troppo monocorde).
Latella apre lo squarcio verso un nuovo modo di leggere e mettere in scena De Filippo, non più commedia crassa e superficiale, ma pozzo smisurato di passioni umane, di eroi e antieori, per lo più sconfitti che desiderano e deridono, cercando un po' di Bellezza in questo mondo.
Spettacolo profondo e coraggioso, in cui le scelte registiche, a volte azzardate e azzeccate, a volte superflue e poco chiare, trascinano la visione verso una onesta presa di posizione sullo stato del teatro italiano contemporaneo e sulle preziose eredità da capovolgere.