“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi” Fu questo il messaggio, laconico e non privo di quell’ironia che aveva sempre contraddistinto il suo autore, lasciato su una copia dei “Dialoghi con Leucò”, ad essere ritrovato il 28 agosto 1950. Cesare Pavese si sarebbe tolto la vita il giorno prima, in una stanza dell’albergo Roma, a Torino.
Nonostante il titolo in realtà questo ‘omaggio a Pavese’, fortemente voluto dall’attore Fabrizio Gifuni, nasce da altre esigenze, altre suggestioni: non la morte viene rievocata qui, bensì la passione di Pavese, le sue curiosità vive e articolate verso ogni sfumatura della letteratura (soprattutto quella americana) e anche della musica – non era un appassionato, Pavese, ma si interessava dei nuovi ritmi del jazz e della musiche di oltre oceano – facendole vivere in questo inedito duo dove alla voce di Gifuni si contrappongono le note vive e sincopate del pianoforte jazz di Cesare Picco.
Per dare vita a questo “two”-man show Gifuni sceglie un racconto giovanile di Pavese, “Ciao Masino”, dove nelle atmosfere rarefatte e uggiose dei pomeriggi nei bar nebbiosi di Torino come delle Langhe di provincia, frequentati da artisti e fauna locale, venivano tratteggiate le avventure tragicomiche del giornalista e librettista dilettante Masino, che si ritrova ad affiancare un compositore jazz(e)-partenopeo quale Don Ciccio.
Le frasi rapide, talvolta esilaranti, della prosa pavesiana non sono tuttavia che un sottofondo al ritmo delle note evocate da Cesare Picco e ai versi potenti delle molte poesie recitate da Gifuni, che vanno ad intrecciarsi al romanzo, come un contrappunto, una sincope dove molti significati, molti accenti si compongono dietro la prosa e dietro ai versi. In ciò l’attore e regista coglie benissimo quella complessità e ricchezza dell’universo pavesiano, di cui il suicidio finale non fu che una virgola, o meglio un punto fissato quasi all’ultimo momento. Non era nella malinconia, nel “vizio assurdo” del cercare la morte che più volte gli fu rimproverato e malamente appiccicato, che è possibile avvicinare l’autore piemontese, quanto in quelle parole ironiche e sottili, dove tutti gli odori, i colori sfumati della nebbia, degli innamoramenti facili e disillusi per le donne, convergevano in ritratti impressionanti per la loro acutezza e lucidità.
Nell’impossibilità di ricreare tutto questo in una semplice lettura, Fabrizio Gifuni opera una scelta intelligente anche se non immediata: accostare il verso alla nota, contrapporre la metrica irregolare di Pavese al ritmo unico del jazz, malinconico e trasparente. Dietro la scelta dei brani, soprattutto quelli poetici, sta probabilmente il desiderio di richiamare i temi cari a Pavese: la città (dedicati versi nel “Blues della grande città”), il borgo, la dimensione breve e tutt’altro che spensierata della giovinezza, gli amori furtivi, disperatamente effimeri, ma sempre sinceri e sofferti, per le donne (le ballerine delle sue “Poesie giovanili”, ma anche della raccolta “Rinascita” ).
Avvolge, unisce l’amore che vibra per una delle maggiori voci della letteratura italiana, spesso incompresa, insieme all’umiltà di capire che non è possibile ridurre l’enormità dell’universo pavesiano a un leggio, a una serata unica. Giova sicuramente il supporto l’aiuto (pregevolissimo) del pianoforte, che accompagna una silhouette sfumata in controluce, che a tratti richiama in maniera dolorosamente inquietante alcune immagini, così come vengono diffuse, dell’andatura pensosa e introversa del poeta in giro per la sua Torino, la pipa tra i denti. Qui è Gifuni che si muove sul palcoscenico del teatro Valle – spazio che sappiamo essere terribilmente in pericolo in seguito alle ultime disposizioni sui finanziamenti e gli organi preposti alla diffusione della cultura in Italia. Leggere Cesare Pavese qui, in attesa del prossimo omaggio a un’altra voce ‘anomala’ della nostra contemporaneità, Pier Paolo Pasolini, acquista un significato e una profondità ancora maggiori.