Parte da lontano il lungo viaggio di Damiana e Barbara: “Nostos”, il racconto del ritorno. Nell’accezione classica tratta vasi del racconto del ritorno dalla guerra, permeato dal quel senso di nostalgia e lacerante separazione che fanno sì che l’eroe aneli in ogni momento il rientro in patria e lo persegua fino alla morte. Ma non ci sono eroi qui: le donne che tornano dalla guerra e dall’orrore, portano impressi nel corpo e nello sguardo i segni dell’amarezza, non hanno desiderio o nostalgia della patria, perché essa, il “paese dei desideri” di Youkali, la straziante canzone di Kurt Weill, non esiste più. Rimane solo la necessità del racconto, della danza, del canto.
La storia di Helen Lewis, la ballerina che sopravvisse nei lager grazie alla sua arte, viene raccontata, scomposta e rimessa insieme dalle due figlie prima, e da lei stessa dopo – in uno scarto temporale frequente in questa drammaturgia, quando insieme alla sua amica cantante Mitzi balla e canta per i Kapò nei campi di concentramento di Terezin e di Auschwitz.
La fascinazione visiva è costante: un tavolo e quattro sedie diventano un interno borghese, un palco, ma anche le panche-dormitorio del lager. Le due attrici prestano il corpo come la voce alla testimonianza costante, cruda, raccontata e gridata senza filtri interpretativi. Un percorso non lineare, in cui nella narrazione verbale si insinuano in ogni momento vecchie canzoni jiddish, passi di tango e di mimo, contaminazioni tra passaggi di teatro naturalistico e l’astrazione della drammaturgia che divide in tre parti la narrazione, sempre più drammatica fino a un finale ambiguamente aperto (la marcia nella neve a un passo dalla liberazione dal campo).
È questa costante mescolanza di generi e tecniche, insieme all’approfondito lavoro di ricerca compiuta insieme ai membri dell’A.N.E.I. (Associazione Nazionale Ex Internati), a costituire la chiave di lettura di questa operazione, che non si colloca esattamente in un contesto teatrale, sia pure senza ripudiarlo interamente. Quello che conta per le due interpreti, la regista Damiana Leone e l’attrice e coreografa Barbara Mangano, pare in effetti un linguaggio e un sentimento che investa ogni parte del corpo dell’attore, caratteristiche che riposano più sulle qualità specifiche della cantante (la Leone) e della ballerina (la Mangano).
Se, come un tempo musicale aritmico, si avverte di quando in quando una sfasatura, una sorta di inadeguatezza tra racconto e tecnica, ovvero tra ciò che le due interpreti vivono sulla scena e quello che dice la loro voce, tra quello che sentono e quello che giunge allo spettatore, questo probabilmente è imputabile alle diverse tecniche impiegate, che non trovano sempre il giusto spazio e tempo di realizzazione, accelerando o rallentando il tempo di rappresentazione come un’onda che non sempre coglie i tempi di reazione e comprensione dell’uditorio.
Non a caso i momenti più riusciti sono quelli più interni, legati al ‘filo rosso’ dell’opera: il racconto stesso del ritorno di Ulisse, che divide la prima parte – il racconto delle due figlie riunitesi finalmente a Praga – dalla seconda – la carriera di Helen all’interno dei lager.
Ugualmente intensi i momenti di “rappresentazione nella rappresentazione”: le esibizioni a beneficio di guardie e kapò sono stata sicuramente ricostruite con particolare cura storica, compresa la beffa della recita di Shylock dal Mercante di Venezia; e così il passaggio mimato della giornata-tipo ad Auschwitz, con la musica wagneriana che accompagna le corse sfiancanti per la selezione o l’applicazione cruda del arbeit macht frei, il lavoro che rende liberi, fino alla morte.
Un progetto originale, compiuto con grande studio ed investimento personale, e come tale non perfetto, perché in costante crescita, nell’elaborazione di quel “linguaggio” assoluto che fonda teatro, musica e canto per raccontare le mille sfumature di una storia, infinita com’è infinita la crudeltà degli uomini.
I protagonisti di Nostos in verità non sono ancora tornati. Non sono tornati più.