Prosa
OCCHI DELINQUENTI 

Giovanni Passannante, dal sogno anarchico alla sopravvivenza della memoria

Occhi delinquenti
Occhi delinquenti

Ci sono operazioni culturali che valicano la specifica costruzione artistica, nelle quali d’impatto prevale la sensazione di gratitudine per aver dissotterrato memorie e significati che meriterebbero un’attenzione istituzionale finanche pedagogica, piuttosto che la coltre scura dell’ignoranza e la terra nera con cui sono stati sepolti.

Ci troviamo al cospetto con tali sensazioni, dinanzi alla forza e alla verità che emerge dal lavoro di Antonio Mocciola ed Edgardo Bellini, autori di Occhi delinquenti - L’autopsia da vivo di Giovanni Passannante, per la regia di Gennaro D’Alterio coadiuvata da Francesca Davide. Se la potenza insita nella storia è di certo una base importante, cionondimeno anche il lato artistico ha conferito il giusto pregio allo spettacolo.

GLI SPETTACOLI 
IN SCENA IN ITALIA

Sette limoni e una bandiera

Una pianta con sette limoni fu l’unica cosa che Giovanni Passannante portò con sé, probabilmente quasi tutto ciò che possedeva, nella cella dove fu recluso dopo che nel 1878 fu ardito autore di un fallito attentato alla vita di re Umberto I.

Un gesto da anarchico individualista che gli costò una condanna a morte poi commutata (anche per intercessione di Giosuè Carducci) in un ergastolo non solo fisico ma anche mentale, venendo tradotto in manicomio e trattato da caso di studio perfino postumo, quando dopo la morte venne decapitato e decerebrato, e cranio e cervello divennero materia di indagine nelle mani della pseudoscienza fisiognomica, e nientemeno che di Cesare Lombroso in persona, che forzosamente cercó di dimostrarne la natura criminale. E soltanto il 10 maggio 2007 i famigerati resti furono sottratti all’esposizione del Museo Criminologico di Roma.

A contribuire alla creazione di atmosfere e ambientazioni evocative rimanendo nei tratti dell’essenzialità, l’ispirata mano registica aggiunge anche una bandiera, quella dei Savoia naturalmente, che un autodidatta di poverissima famiglia dell’entroterra lucano, frequentatore di circoli mazziniani, non può che odiare: una delle due finzioni narrative, insieme con la presenza fisica di Lombroso, che costruiscono una sorta di augmented reality su quella vera scena che era invece un buco di un metro e quaranta di altezza sotto il livello del mare a Portoferraio, dove per dieci anni venne segregato in condizioni inimmaginabili.

Dal ceppo alla follia

Nello sguardo di Francesco Petrillo riesce a leggersi il transito da un giovane nudo in un sacco di juta, caviglia sanguinante al ceppo, che idealizza “la Repubblica Universale” e che non ha i soldi neanche per comprare un coltello decente per il suo attentato, infarcito di pensieri troppo grandi per lui ma ben piantati (“Un re non può mai avere a cuore la gente semplice”, “Non mi uccidono perché io possa sentire meglio la morte”, “Grazia no, tengo ‘na dignità, mica posso scendere a patti col nemico”), fino alla persona che in spregio a tutto sopravvive, diventando infine un mite vecchio, risultato della follia indotta, un rifiuto ormai leggero e senza memoria di cui potersi disfare. E fa apparire netta anche la straziante separazione delle due fasi, che avviene con un feroce, lungo rantolo strisciante, angosciato e senza speranza.

Vincenzo Nigri è un Cesare Lombroso forte, convinto, una presenza imponente (proprio nel senso della sua imposizione sulla storia) che in scena interagisce con Passannante sia a livello politico (ottimo il riferimento al lager della Fortezza di Fenestrelle), sia a livello fisico, con visite antropometriche che sicuramente lo studioso avrebbe voluto fare: la sua azione è infatti una scienza al contrario, quella che parte dal risultato, e cerca la strada per giustificarlo.

A Giuseppe Brandi è affidata infine l’atmosfera finale che fa sfumare tutto nell’oblio, sia in vita, se così si può ancora chiamare, sia nella posterità, con un sentimento che fa percepire con le giuste ombre (“Guai a lasciarsi plagiare dalla compassione, per non farsi contagiare”, “Lui ormai è il più buono di tutti”).

La memoria di Salvia

“A Salvia non è mai ora di pranzo”.

Passannante  giustamente sostiene che “La disperazione è universale ma la responsabilità è personale”; non poteva quindi immaginare che il suo gesto sarebbe valso invece la condanna non soltanto sua, ma della sua intera famiglia, che subì sorte simile nel manicomio di Aversa, e infine addirittura del suo intero paese d’origine, Salvia di Lucania, che fu immediatamente cancellato dalla memoria collettiva, come sentenziato subito da La Stampa, e la cui damnatio memoriae fu sancita con gesto tranchant dalla casa regnante, mutando il suo nome nell’ancora attuale Savoia di Lucania.

Solo negli ultimi anni qualcosa si sta muovendo grazie anche alla mobilitazione di intellettuali ed artisti, fino a riuscire a traslare i suoi resti in Lucania. Ed è in momenti come questi, percependo l’accuratezza delle ricostruzioni e la resa della scrittura, che si ascoltano voci che ambiscono a ripristinare uno stato di decenza storico, quando nel buio dell’ultima scena si sente l’atmosfera giusta per pensare che si è almeno cominciato, a porre le basi per restituire una possibile forma alla giustizia.

 

Visto il 07-05-2022