Dalla volontà di due giovani autori, Jessica Costa Moreno e Francesco Talarico, nasce una storia attuale e sensibile, raccontata in maniera molto particolare al teatro dell’Angelo in questi giorni.
Nella classica ‘terra di nessuno’, un’anonima (ma non troppo) sala d’aspetto, si incontrano e si scontrano sei ragazzi, tutti italiani, di nome. Dietro di essi storie profonde, e tanta rabbia: lo spaesamento e l’aggressività vissuti contro una società e una nazione che di fatto non esiste, non per loro e con cui loro nulla vogliono avere a che spartire, pur ricercandola avidamente. Dal proprietario di bar, perfettamente integrato tanto da avere amici ‘di destra’, alla ragazzina arrabbiata e innamorata del confratello leader di movimento, come lei condannato ad aspettare un visto che non arriva, fino alla giovane creola terrorizzata e fin troppo consapevole, si intrecciano dei vissuti che presto mutano l’aspetto della sala, complice anche una signora senza tetto che li osserva, vagamente divertita, vagamente annoiata.
In un gioco di luci sempre più artefatte e misteriose il testo si vena presto di sfumature metafisiche, fino a dare l’ultima parola al personaggio finale che, comparendo da quella porta dove tutti, chi prima chi dopo, sono stati chiamati e da cui tardano ad uscire, parla all’ultimo di loro, lo smarrito “Nero”, il giovane africano a capo di una manifestazione da cui sono iniziate tante cose.
Il messaggio non è semplice, come non lo è questo testo ambizioso, che ha sicuramente dato non poco da fare al regista e ai giovanissimi interpreti: trovare un compromesso tra identità e cultura, tra parola scritta e realtà vissuta, ha creato in questo spettacolo un costante rimbalzo di parole e intenzioni non tutte comprensibili, sicuramente non tutte colte appieno.
La debolezza, o forse l’acerbità di una drammaturgia che unisce troppi registri, passando con eccessiva disinvoltura dalle battute brillanti ai temi di denuncia ai drammi personali, in un contesto spaziale e psicologico che vira dalla quotidianità al surreale all’onirico (perfettamente riuscita in questo l’immobilità ieratica del sibillino ‘guardaporte’) riesce forse non del tutto digeribile allo spettatore che sente inevitabilmente il tendersi del tempo intorno alle battute profuse con generosità ma con una tecnica ancora da rodare dagli attori.
Non passano comunque inosservate le prove di tutti, tra cui spiccano l’intenso Mohamed di Biniam Johannes e l’istintivo Nero di Benny Hopffer Almada, cui si aggiunge il bellissimo cameo della ‘barbona’ Lorenza Guerrieri, che accompagna con leggerezza i suoi compagni di avventura consegnandoli ad Antonello Avallone (generoso e accorato interprete dell’ultimo personaggio senza nome) e ai sublimi versi di Brecht, che ben sintetizzano questo lodevole anche se ancora immaturo tentativo:
Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti,
ed io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare.
Visto il
08-12-2009
al
Dell'Angelo - Sala Grande
di Roma
(RM)