Prosa
RE LEAR

Lear è stato sbeccato in pieno

Lear è stato sbeccato in pieno

Diciamolo: la fedele rilettura di un’opera classica ai giorni nostri interessa ben pochi. Infatti, l'indulgente critica da tempo ormai permette di collocare “Re Lear” nei più svariati periodi storici e nelle più disparate ambientazioni. Anche lo spettatore, da parte sua, più che dalla triste storia dell’infelicissimo dei re, viene attratto dalla curiosità di scoprire che cosa il regista vi sia riuscito a scorgere di nuovo, dove abbia voluto porre gli accenti e - visto che la grande tragedia può essere letta in chiavi diverse - che moventi abbia colto nel comportamento dei protagonisti. Alcuni preferiscono indagare sui fenomeni psicologici (ricordiamo la memorabile rappresentazione di Scofield-Brook oppure quella più recente del russo Lev Dodin), altri sugli aspetti politico-sociali (Luca Ronconi, per citarne uno). Il georgiano Robert Sturua, che qualche anno fa aveva portato a Milano la sua inconsueta versione di “Lear”, vi ha intravisto addirittura una storia di vendetta.

Il “Lear” di Magherini non mette in evidenza né motivazioni sociali, né presupposti psicologici. E’ difficile intravedervi anche i richiami politici che, soprattutto ai giorni nostri, molti cercano di scorgere nell’insozzata vicenda britannica. A quanto pare, il regista non si pone come idea di risolvere i problemi di scala globale; non è nelle sue intenzioni cercare giusti o colpevoli così come emanare sentenze o fare lungimiranti conclusioni. Con le sue vivaci scenografie e l’esposizione stringata lo spettacolo appare destinato sicuramente non a uno spettatore affamato di nuove scoperte, ma a una platea di irrequieti scolari delle medie. Gli sforzi degli attori sembrano essere concentrati nel riuscire a far stare dentro di 1 ora e 40 minuti (rispetto alle canoniche abbondanti due ore e mezzo) i fatti più rilevanti della trama, dando un minimo di motivazione al bizzarro comportamento dei personaggi e alle loro sfrenate passioni. Tutto, ovviamente, in una scala ridotta e semplificata.

Tanto semplificata, che è inutile andarvi a cercare delle ambiguità. Alla base di questo “Lear” troviamo un pensiero molto chiaro: tutti i mali sono il frutto della caparbietà e della sordità dell’animo, nonché della riluttanza di capire l’altro. All’inizio Lear (Riccardo Magherini) - un essere brutale, scompigliato, con una specie di becco in mezzo alla corona, che va in escandescenza non appena qualcuno lo contraddice - sembra davvero un avvoltoio pronto a sbranare chiunque osi disubbidirgli. “Nulla verrà dal nulla” dice e in un batter di ciglio priva la sua beniamina Cordelia (che nello spettacolo, in realtà, è assente) dell’eredità. Avere un paparino con un carattere simile non fa invidia a nessuno. Quindi è abbastanza comprensibile che le due figlie maggiori non ne possono più delle sue rozze uscite e non vedono l’ora di sbarazzarsene. Loro hanno imparato bene le regole del gioco e non fanno altro che metterle in pratica.

La tragedia di Lear per Magherini è legata, probabilmente, anche alle drammatiche conseguenze della privazione del potere. Il suo protagonista è assillato dall’idea della propria grandezza. Prima egli non aveva bisogno di parlare per essere esaudito. Ora invece le parole gli servono. Prima si accontentava dell’obbedienza, ora esige anche rispetto e ammirazione, non importa se veri o falsi. E’ proprio questo che la povera e ingenua (oppure stupida e testarda come il genitore) Cordelia non capisce, scatenando il putiferio. Lear continua a battere i piedi. Ma se prima il loro boato scuoteva i muri, ora infastidisce solamente. Allunga con minaccia il collo e… diventa simile a uno spelacchiato volatile.  

Questo nelle prime scene. Poi l’esattezza e la riconoscibilità del carattere si appiattiscono. Lo spettacolo continua a seguire a grandi linee la trama, ma senza la dovuta acutezza. Tanto è vero che anche la scena della tempesta e l’epico monologo “Soffiate, o venti…” non possiede l’intensità che uno si aspetta. Solo alla fine, quando il re impazzito, pelato e privo sia del suo becco che dei quattrini, si siede sul ciglio del proscenio di fianco all’orbo Gloucester (Antonio Rosti), tradito pure lui, e gli parla con toni amari e irridenti, noi di nuovo ci accorgiamo di avere davanti un uomo privo di speranze e di compassione verso se stesso, pietoso e buono a nulla.

Per quel che riguarda gli altri interpreti, un po’ per colpa del disegno scenico, un po’ perché gli stessi attori recitano più parti, si presentano come carte dello stesso seme.E' difficile distinguere qualcuno in particolare. Anche se in alcuni momenti nello sguardo freddo di D’Aquino traspare il carattere guerresco di Goneril e Raimondi con un’occhiata riesce a trasmettere la natura “streghesca” della sua Regan, le due, dovendo occuparsi anche delle attrezzerie, perdono il loro “alone regale” trasformandosi agli occhi della platea in personale di supporto tecnico.

Forse perché ha fretta di immedesimarsi nel personaggio di Gloucester (Antonio Rosti) il matto (il medesimo Antonio Rosti) mitraglia le sue battute a una velocità tale che anche il pubblico più preparato fatica a distinguerle una dall’altra. Così come uno strano effetto suscita l’interpretazione di Edgar da parte di Cosenza che, data la sua età, sarebbe più adatto per il ruolo del padre attempato piuttosto che del figlio.

Consigliato: per il pubblico di primo pelo.

 

Visto il 04-05-2012
al deSidera Teatro Oscar di Milano (MI)