Prosa
SALOMé

Una Salomè anarchica ed estrema. Forse troppo.

Una Salomè anarchica ed estrema. Forse troppo.

Pareti, drappi e drappeggi di colore rosso. Rosso fuoco, rosso passione. Rosso come l’amore, un’accoppiata vincente non solo in pubblicità, ma anche nell’immaginario collettivo. Un colore che, con altrettanta frequenza, siamo abituati a vedere nei teatri ma che, in questo caso, non è solo un elemento ornamentale. Non possiamo sapere con certezza se la Salomè immaginata da Oscar Wilde fosse vestita con questa tonalità, ma quasi certamente il rosso che vediamo attorno a lei, agli altri personaggi, richiama il sentimento, forte per quanto malato nel momento in cui diventa estremo, che la anima e di cui è schiava.

Nello spettacolo di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia la bella principessa giudaica, ammaliante e incantatrice, veste un succinto abito color oro ma non brilla raggiante come il metallo prezioso, anzi. Cupa, inquietante e ostinatamente capricciosa, la Salomè proposta in questa versione rivisitata dell’omonima opera dello scrittore irlandese si muove sinuosa e torbida, insolente nei modi e negli sguardi, preda di una coriacea ossessione per il profeta Iokanaaan - l’equivalente del Giovanni Battista illustrato nei testi biblici - un moralizzatore duro e intransigente, pronto a combattere la perdizione e il peccato che regna nel mondo.

Una versione tutta giocata sugli eccessi, dai costumi alla scenografia, fino ad arrivare anche al registro interpretativo. Vari personaggi interpretati da tre soli attori, tutti uomini, i quali si servono non solo di abiti e cambi di scena abbastanza repentini, ma anche di una struttura narrativa che mischia, in modo confuso, sicuramente non facilmente intuibile, la storia principale con brani tratti dalle ultime opere di Wilde e estratti da interviste e testimonianze. Certamente interessante la volontà di utilizzare un’ambientazione circense come sfondo al racconto - forse metafora dell’esistenza caotica nel mondo strano in cui viviamo. Tuttavia, la scelta di proporre lo stile esuberante da drag queen isterica per Erodiade sembra poco indovinata in certi momenti, quando invece l’atmosfera si fa più ovattata, quasi come se il carillon si fosse all’improvviso incantato. Uno stridere probabilmente voluto, ma non sempre necessario o funzionale ad una narrazione che si fa già carico di temi forti di per se’: la nocività di amori sbagliati, l’isteria compulsiva che si accompagna alla paura e che (de)genera in violenza e aggressività, la cupidigia e la pavidità imperanti, la profondità di certi dolori che sono tali da annientare anche quei germogli di bene che di tanto in tanto si presentano. “Ognuno uccide ciò che ama, e dopo averlo fatto sopravvive” sentenzia il Wilde/Iokanaan di Bruni, ma non è da escludere che la profezia riguardi anche l’altro personaggio, Erode, il lussurioso tetrarca che, cedendo alla richiesta della figliastra che ha danzato per lui, finisce col calpestare la propria dignità di uomo e di sovrano, facendosi carico della responsabilità dell’uccisione di un uomo.
Il rischio di esagerare - in ogni senso - è quindi dietro l’angolo, ma quello di soffocare quanto conosciamo già come bello e valido lo è altrettanto.      
 

Visto il 03-11-2015