Prosa
SCENDONO LE PAROLE, SUONANO LE CAMPANE

Una guerra che non passa: concerto per tre voci

Una guerra che non passa: concerto per tre voci

Sono tre donne a raccontare questa storia, una vicenda antica dove si intrecciano la guerra, la paura e il lutto, ma anche l’amore, l’esaltazione e la vitalità; tre voci che, ognuna per proprio conto, ma ciascuna parte di un concertato corale, poco a poco lasciano vedere uno scorcio di campanile, l’ombra di un albero alla finestra, alla piccola luce di una lampada, mentre la guerra passa e la vita ritorna, raccontati da una parlata musicale e nostalgica come solo il veneto e la sua gente possono ispirare.

Gianni Guardigli, l’autore e regista, compone una partitura di memorie e di voci che costituiscono l’anima di un piccolo paese sotto il monte Grappa. Mentre fuori, lentamente, il mondo riprende il suo corso, una serva, una padrona e una cantante di varietà si interrogano sulle tante verità taciute durante il conflitto bellico e ora destinate a riemergere dopo il ritrovamento del cadavere di una di loro, noto gerarca fascista.
Interessa in questa drammaturgia l’accento, delicatissimo, posto non tanto sull’orrore del conflitto, sulle stragi, sulle rappresaglie compiute da tutte le fazioni in lotta, quanto sull’animo femminile che incarna l’universalità della donna, il suo ruolo fatto di attesa, e di dolore, ma anche di rabbia e di ironia, dove lo sguardo si fa acuto e ironico e la bocca pronta a denunciare e a togliere ogni maschera di rispettabilità e di ipocrisia.
È Elisabetta De Palo che, spostandosi da una torre campanaria a una sedia o a un baule, dà vita alle tre protagoniste, le sue “compagne”, come ha avuto modo di raccontare in un’intervista. Sì, perché la sua prova di attrice è talmente intensa, accurata in ogni dettaglio che in scena si ha veramente l’impressione di interagire con tre donne in carne ed ossa diverse tra loro per sguardi, parola e vissuto. C’è Tilde, la serva, il personaggio più immediato, pieno di passione e di popolana sincerità, che accudisce la sua padrona e insieme la memoria e la coscienza del paese; è semplice e pura Tilde nelle sue rabbie come nella sua risata e nelle sue lacrime. Non così pulita esce la figura di Elenora, la padrona, colei che ha avuto il marito ammazzato da qualcuno il cui nome non uscirà mai, la donna che non ha mai veramente amato, che ha avuto una vita sicura e protetta in mezzo alla miseria degli altri, e che in cambio ne ha solo ricavato la consapevolezza del vuoto più totale, del disprezzo del paese e dello stesso marito, pronto all’assenza come al tradimento. E poi c’è Doriana, la cantante, che sentiremo fino alla fine cantare pateticamente le sue canzoni fuori dal tempo (“Maria la O”, il noto brano di Rabagliati e l’inedita canzone che dà il titolo alla pièce, “Scendono le parole, suonano le campane”), mentre è ormai costretta a restare chiusa in casa, nell’atmosfera ostile del dopoguerra dove non si perdona chi ha cantato per il nemico, anche se per salvarsi la vita e far dimenticare un’origine sospetta sotto un falso nome.

La penna di Guardigli sfiora lieve le miserie personali, i racconti di bombardamenti, le meschine dicerie e la voglia di felicità e di oblio che accomuna queste tre donne, di cui solo Tilde sopravvivrà fino ai giorni nostri, accompagnando con una nenia senile il tempo che passa.
Un bel testo e un atto di affetto e di omaggio a una grande attrice.

Visto il 25-05-2010
al Due di Roma (RM)