Prosa
SOGNO D'AUTUNNO

Un Fosse disatteso

Un Fosse disatteso
L'incontro tra Jon Fosse e Zerkalo Teatro che ha messo in scena il suo Sogno d'autunno, in prima nazionale al Teatro allo Scalo di Roma, lascia perplessi e non pienamente convinti. Intanto per la scelta di un testo di puro teatro di parola per una compagnia che si colloca in una posizione intermedia tra il teatro di parola e le declinazioni postmoderne della ricerca teatrale (dal blog Zerkalo teatro) e per la messa in scena senza l'ausilio di alcuna medialità oltre quella scenica (nemmeno uno straccio di musica) 70 minuti di pura parola. Uno spettacolo atipico per la compagnia e forse non proprio nelle sue corde. Lo sforzo produttivo si concentra su una scenografia, intelligente ed elegante, che rilegge in chiave grafica il cimitero classicamente descritto nelle didascalie del testo originale (pubblicato in Italia, insieme ad altre cinque commedie, dalla Editoria & Spettacolo di Roma con il titolo di Teatro) con alberi neri (...) vialetto di ghiaia. Una panchina dalla vernice scrostata. Domenico Canino invece veste il pavimento del Teatro allo Scalo di una superficie di plastica bianca, con sopra stampati decine di nomi norvegesi in nero, con date di nascita e di morte, che copre tutto il palco, sviluppandosi in profondità, fino a raggiungere la quinta sulla quale si innalza una parete dipinta di nero screziata in elegante ordine geometrico da nomi in bianco con relative date di nascita e di morte. Di proscenio un parallelepipedo, anch'esso dipinto di nero, con un solo nome stampato sopra, che funge da panchina, mentre alcuni cumuli di terra costituiscono l'unica presenza organica di una scenografia astratta e algida, contemporaneamente classica e moderna, che rende benissimo l'idea del cimitero senza scomodare nessun simbolo religioso. Su questa scena prende luogo l'azione  di Sogno d'autunno che, già dal nome, suggerisce la qualità dell'affabulazione che il racconto teatrale andrò a mettere in gioco. Un incontro casuale nel cimitero tra un uomo e una donna che si rincontrano dopo tanto tempo. Parlano con frasi convenzionali della lingua di tutti i giorni, con molte ripetizioni. Su questo incontro e su una prima seduzione (lui esprime il desiderio di rimanere da solo con lei, lei suggerisce di andare al suo albergo) si innestano altri due incontri: quello con i genitori dell'uomo, lì al cimitero per il funerale della nonna paterna dell'uomo (madre petulante e volitiva, padre remissivo fin quasi al silenzio), e quello con la prima moglie dell'uomo che vine ad annunciare la morte di loro figlio, ormai grande in età da matrimonio. Senza soluzione di continuità e con tutti i personaggi quasi sempre in scena l'uomo e la donna si comportano come se i dialoghi fossero presi da momenti diversi della loro storia. L'incontro fortuito con cui si è aperta la pièce, l'incontro con i genitori (successivo a quel primo incontro, perché quando l'uomo presenta la donna a sua madre loro sono già una coppia, e la madre gli rimprovera di aver abbandonato la moglie che, gli rinfaccia,  la va a visitare molto più spesso di lui...) mentre all'inizio l'uomo parla di una casa con moglie e figlio.  Tutti i dialoghi sono basati su ripetizioni con minime variazioni di significato dando un senso di spaesamento, onirico, come suggerisce il titolo della piéce, ma non casuale né aleatorio, anzi ogni tessera del puzzle temporale ha un suo posto ben preciso (in uno dei dialoghi dopo l'incontro con i genitori, l'uomo e la donna ricordano di essere andati in albergo da lei, anni prima, quando si incontrarono lì per caso...). In questi dialoghi atemporali fatti di doveri sociali, imperativi morali (visite ai genitori, sposarsi, divorziare) e di contingenze della vita (fare figli, ammalarsi, invecchiare, morire) sta il nucleo della pièce che mostra come la vita degli uomini e delle donne sulla Terra passa senza lasciare segno alcuno: Tutte le volte che sono in una città e mi trovo in un posto alto e guardo la città, ecco allora osservo le case una per una e penso che delle persone che in quel momento sono nelle case, che in quel momento abitano lì, lavorano lì, tra non poi tanti anni non ne sarà rimasta neanche una, tra non molto saranno tutti morti e altra gente sarà lì in quelle case per le strade. Piano piano tutti vengono sostituiti con altri... dice la donna all'uomo all'inizio della pièce). Tutti vengono  sostituiti senza che i valori borghesi elencati per tutto lo spettacolo nel loro ripetersi, riprodursi, imporsi di generazione in generazione, abbiano capacitò di radicarsi in una memoria storica. Tutto scivola e ricomincia da capo, nulla resta, tutto si azzera. Alla fine della pièce mentre gli uomini scompaiono, fisicamente e simbolicamente, le donne restano in scena pronte ad officiare un funerale: una madre, una ex moglie e una amante, anche loro incapaci di fare storia ma almeno consapevoli, per il tratto della loro esistenza, di una accumulo storico che viene a sparire con la morte delle persone. Ecco il posto marginale che oggi occupa quel sentire l'oltre di cui la donna ha capacità innata in tutta la letteratura europea (sopratutto del Nord), teatrale e non, da almeno un secolo. Ha solo una valenza personale, individuale, non fa più storia, gruppo, comunità, classe sociale.  L'uomo continua a tenere in poco conto i sentimenti (come confessa alla donna) ed è assente a se stesso per tutta la vita. Sogno d'autunno racconta una storia di pessimismo cosmico, spiazzante e ineluttabile, detta  con la leggerezza del sogno, con la particolarità di una lingua e di uno scrivere (in versi liberi) che in italiano perdono tanto del loro ritmo e musicalità. Impossibilità di un progetto che è effimero non solo per l'instabilità dei sentimenti delle persone ma per l'instabilità della vita stessa che si conclude sempre con la morte. Un testo spiazzante che si regge apparentemente sul nulla, su un tempo dilatato fino alla scomparsa nell'attesa, ma che cela l'orrore dell'oblio della vita, che è quello della morte. L'esecuzione degli attori di Zerkala Teatro si concentra nella ricerca di una recitazione che dia coerenza ai dialoghi come se non ci fosse una ragione interna a quei discorsi e il regista l'abbia cercata nel fatto stesso che vengono detti a teatro col risultato di trascurarne le implicazioni pessimistiche e scansando quel carattere onirico che avrebbe richiesto un recitazione diversa da quella proposta che diventa l'unico centro ella pièce, la parola, detta, esposta, mai allusa, né onirizzata, insistendo invece sulla ripetizione, sugli aspetti buffi e strani di un testo reso ostico, algido, scevro di vere emozioni senza riuscire a dire la disperazione terribile che si cela dentro un'apparenza di borghese impassibilità. Si esce dallo spettacolo frastornati cercando di mettere insieme i pezzi di un puzzle narrativo, mentre si dovrebbe uscire aggravati dal senso di una sconfitta universale quella dell'esistenza che non sa mettere radice e ricomincia ogni volta da zero. Proprio come il teatro che ogni sera ricomincia daccapo la sua narrazione. Questa volta un po' più a vuoto del solito.
Visto il 10-12-2009
al Allo Scalo di Roma (RM)