Quello che fuorvia nella presentazione di Stazione Pirandello è il connubio con le musiche di Rino Gaetano, al quale, lascia intendere il comunicato stampa, Pirandello verrebbe confrontato in nuove esegesi sinergiche.
Stazione Pirandello, invece, lo si capisce già solo dopo pochi minuti di spettacolo, è un sentito, rispettoso, intelligente e azzeccatissimo omaggio a una delle figure principali del teatro occidentale, troppo spesso recentemente emendato da esegeti dell'ultima ora.
Non è il caso di Gino Auriuso che scandaglia con sensibilità e competenza nel poderoso repertorio Pirandelliano per trovare brani esemplificativi della profondità, dell'acume e della modernità del suo pensiero, anche quando affronta un tema universale come quello della follia.
In un percorso per stazioni, in ognuna delle quali Auriuso estrapola alcuni brani, non solo teatrali, invitando lo spettatore a seguire un discorso sulla follia che parte dalla sua fenomenologia passando attraverso l'analisi, l'uso sociale e il suo riscatto morale.
In scena quattro performer prestano la loro esperienza di attori (attrici) dando voce e corpo ora all'uno ora all'altro personaggio presentandosi con un costume di scena giocoso e gaio (lo stesso con diverse varianti cromatiche) a ricordare la comune radice attoriale dei vari personaggi interpretati (poco importa se alcuni provengono da romanzi o novelle, le autocitazioni e gli sconfinamenti da un media all'altro sono una delle caratteristiche salienti di Pirandello) ma, anche, la comune radice umana del personaggio che ognuno di noi è chiamato a interpretare nella vita.
In questo discorso le canzoni di Rino Gaetano costituiscono un correlativo oggettivo dell'attualità contemporanea del corpus letterario (in senso lato) di Pirandello proprio perchè tutt'altro che datate, anche se il suo autore le ha scritte oltre trent'anni fa parlano ancora di noi.
Lo spettacolo si apre con una pantomima dei quattro attori su Nuntereggae più nella quale attestano la loro natura di istrioni buffi e folli. Subito dopo Tony Allotta interpreta Vitangelo Moscarda il protagonista del romanzo Uno, nessuno e centomila (iniziato nel 1909 ma portato a termine e pubblicato solamente nel 1926). Moscarda, persona ordinaria, ha una crisi di identità quando la moglie gli fa notare che il suo naso è leggermente storto, rendendosi conto che gli altri hanno un'immagine della sua persona completamente diversa dalla quella che lui stesso ha di sé, mettendo così in seria e profonda crisi il concetto stesso di identità.
Sfaldamento dell'identità ben resa sulla scena dall'amplificazione del personaggio della moglie, interpretato contemporaneamente dagli altri tre attori (attrici) in un coro sgangherato che ora va all'unisono ora si sovrappone malamente.
Una prima stazione che registra il vacillare della coscienza e il primo cadere nel precipizio della follia (nel romanzo Moscarda finirà in un ospizio rifiutando persino il suo stesso nome che sentirà troppo normativo e definitorio).
Poi, senza soluzione di continuità, passiamo all'Enrico IV (scritto nel 1922), nel quale, com'è noto, un nobile del primo '900 del quale ignoriamo il nome, in seguito a un incidente (viene disarcionato da cavallo dal suo rivale in amore) durante una festa in maschera, crede di essere davvero Enrico IV, personaggio da cui si era mascherato, e viene assecondato per anni in questo suo convincimento. La pazzia vera si trasforma durante il dramma in convezione e convenienza, quando il nobile, rinsavito, si accorge dell'inganno in cui è stato mantenuto. Nello spettacolo sono presenti due brani, un primo nel quale le vecchie "comparse" assoldate, gente del popolo, istruiscono l'ultimo arrivato nel recitare il ruolo richiesto, e un secondo brano nel quale gli stessi tre personaggi si confrontano con il nobile rinsavito, che ragiona sui motivi che hanno indotto le persone intorno a lui a ingannarlo: buone intenzioni dagli effetti devastanti e tornaconti personali (il rivale in amore che sospetta il suo rinsavimento e chiama un dottore per visitarlo). Altro tassello del discorso sulla follia qui vista nel suo cessare e nella convenienza del suo continuare ad essere (il nobile ferisce a morte il suo rivale in amore e la pazzia è l'unica strada per evitare il carcere, ma questo nello spettacolo non è detto).
Auriuso qui calca un po' troppo la mano permettendosi una rilettura del testo in chiave dialettale (il romanesco, il pugliese) poco in sintonia con l'Italiano di Pirandello, il cui effetto comico, scelto per alleggerire una conversazione altrimenti un poco statica, scaturendo dal dialetto stesso e non da quanto viene detto o agito, finisce per sostituirsi al testo con una improvvisa caduta di stile estranea al resto dello spettacolo.
Dopo un altro brano di Gaetano lo spettacolo fa subito dimenticare la caduta di tono precedente: Allotta e Ciaramella di proscenio e Dodaro e Linari in fondo al palco si dividono due momenti topici de Il berretto a sonagli (scritta nel 1918): l'ostinazione con cui Beatrice Fiorica vuole denunciare il marito adultero e il discorso di Ciampa a donna Fiorica sulle tre corde, quintessenza del pensiero pirandelliano sulle convenzioni sociali alla fine del quale (ma lo spettacolo non arriva al punto) Ciampa consiglia a Fiorica di fingersi pazza per salvare le apparenze (convenienza sociale non penale come nel caso dell'Enrico IV). Un momento ad alta intensità dove i quattro interpreti danno massima prova della loro bravura.
Senza soluzione di continuità Ciaramella si cimenta magnificamente con il monologo de La favola del figlio cambiato, contenuta ne I giganti della montagna, del 1933, l'ultimo incompiuto dramma di Pirandello. Arriviamo così a uno dei testi più suggestivi del drammaturgo girgentiano del quale Auriuso sceglie il brano dove Cotrone, detto il mago, ragiona con gli attori della compagnia giunta a Villa Scalogna, sui rapporti tra spirito dei personaggi e attori:
COTRONE: Quei fantocci là, per esempio. Se lo spirito dei personaggi ch'essi rappresentano s'incorpora in loro, lei vedrà quei fantocci muoversi e parlare. E il miracolo vero non sarà mai la rappresentazione, creda, sarà sempre la fantasia del poeta in cui quei personaggi son nati, vivi, così vivi che lei può vederli anche senza che ci siano corporalmente. Tradurli in realtà fittizia sulla scena è ciò che si fa comunemente nei teatri. Il vostro ufficio.
SPIZZI Ah, lei ci mette allora a paro di quei suoi fantocci là?
COTRONE Non a paro no, mi perdoni; un po' più sotto, amico mio.
SPIZZI Anche più sotto?
COTRONE Se nei fantocci s'incorpora lo spirito del personaggio, scusi, tanto da farli muovere e parlare...
Un dei momenti più emozionanti dello spettacolo dove la follia come perdita, o rinuncia, all'identità borghese, è paragonata alla voglia di vivere dei personaggi, del loro spirito, che anima direttamente dei fantocci, meglio di quanto ogni attore possa fare in sé, proprio come ogni forma pura dello spirito si corrompe nell'individualità che ognuno di noi, esistendo, incarna.
Il paradigma del teatro diventa così un memento della caducità della nostra maschera (il ruolo sociale, l'imperativo morale della società borghese) ma anche una rappresentazione di un oltre nel quale ognuno di noi è altro da sè in una rappresentazione scenica assai meno pericolosa che nella vita reale.
La follia dunque lungi dal riguardare gli altri, i matti, è una condizione entro la quale viviamo tutti, mal giudicati, incalzati dai diversi ruoli sociali che ci autoimponiamo o che ci impongono gli altri, una follia che non denuncia dunque una pazzia individuale ma l'indomita resistenza dello spirito ad assumere forme definitive, come stabilisce lo spettacolo nello splendido finale quando i quattro interpreti recitano a turno, in una staffetta suggestiva, appoggiati ai piedi di un letto, la luce che illumina solamente i loro volti, brani della novella Il treno ha fischiato nella quale un vicino del protagonista, l'io voce narrante, ci spiega come mai un giovane copista ricoverato in un ospizio perché ritenuto matto, sia arrivato a ribellarsi alle vessazioni del capoufficio. E' bastato sentire il fischio di un treno per ricordargli quel mondo esterno, quello fenomenico e privo di forma che c'è a di là della nostra vita grama, al quale ogni tanto dobbiamo pur andare con la mente prima di tornare nei lacci delle convezioni borghesi. Chiude Il cielo è sempre più blu brano nel quale la consapevolezza del disastro del vivere non si scinde mai dalla speranza di una vita migliore.
Stazione Pirandello è uno spettacolo splendido, magnificamente interpretato, che può essere goduto sia da chi è a digiuno dei testi pirandelliani come racconto della e sulla follia dell'essere umano, sia da chi, amante di Pirandello, sa apprezzare l'operazione di selezione e montaggio dei vari brani nell'allestire uno spettacolo che resta e si impone alla memoria dello spettatore come un'esperienza da portare nel cuore.