Di Tre sorelle di Cechov, Silvio D'amico, nella sua Storia del teatro drammatico, diceva che è un dramma in cui "non succede niente"1. La sostanza del dramma sta in quella dissoluzione della classe aristocratica, di cui Irina, Olga e Maša Prozorov sono tre aristocratiche sopravvissute, incapaci di fare i conti con le nuove classi emergenti in un periodo storico di grandi cambiamenti, preconizzati e temuti. Figlie orfane di un generale, nate e cresciute a Mosca e giunte in un capoluogo di governatorato, non fanno che ripetere di tornare a Mosca, sognare un futuro migliore, una vita altra da quella cui sono costrette nel presente. Maša, sposata a 18 anni con un professore di Liceo, si innamora del comandante Veršinin, a sua volta sposato e con moglie suicida; Irina, la più giovane, cambia lavoro da un atto all'altro, disgustata dalla prosaicità del lavorare, e si dispera di vedersi invecchiare, di iniziare a dimenticare le lingue che il padre le ha fatto studiare; accetta di sposarsi col barone Tuzenbach, più grande di lei e brutto, ma le viene ucciso in duello da un rivale in amore; infine Olga che conta di tornare a Mosca, e si ritrova suo malgrado a fare la direttrice nella scuola dove insegna il genero... Loro fratello Andrej, intanto, ipoteca la casa per debiti di gioco e viene tradito dalla moglie Nataša (tanto snobisticamente criticata quando era la fidanzata) che adesso fa la padrona. La guarnigione viene infine cambiata di destinazione e le sorelle rimarranno sole...
Queste, in estrema sintesi, le coordinate narrative su cui si dipanano le storie dei tanti personaggi del dramma (che Cechov raccomandava di recitare leggermente, come voudevilles2). Affiancano i personaggi già detti una pletora di militari, gli unici che frequentano casa Prozarov (ad esclusione della ex bambinaia, la vecchia contadina Anfisa, per la quale solo Olga sente di prendere le difese quando Natascia vorrebbe rispedirla a casa per limiti d'età tanto da condurla con sé nella nuova casa "da direttrice" dove vive): il Barone Tuzenbach, che si congeda dall'esercito per "andare a lavorare" come presentisse il crollo di un sistema di classi sociali e di valori e volesse rinnovarsi, abbracciare il cambiamento, incontrando la morte in un duello per amore di Irina; il comandante Veršinin e il suo filosofeggiare un lontano futuro di felice serenità per tutti; il vecchio medico alcolista Čebutykin che ha dimenticato tutta la sua scienza medica, innamorato da giovane della signora Prozorov, la madre delle tre sorelle, forse ricambiato, che non si è mai ripreso da quell'amore ora riversato paternalmente su Irina, il quale non si oppone al duello tra il barone e Soliony, forse perché non vuole che il barone gliela porti via...
Insomma un testo complesso nelle sue stratificazioni narrative (basti pensare ai personaggi che non compaiono mai in scena ma che hanno lo stesso una funzione importante, dalla moglie di Veršinin a Protopopov, il potentissimo presidente della giunta rurale, amante di Natascia, presumibilmente il vero padre della seconda figlia della coppia), nel quale Cechov, portando all'estremo la struttura del teatro naturalista, si avvicina al teatro moderno approntando dei monologhi nei quali i personaggi sembrano rivolgersi direttamente allo spettatore come quando Andrej confessa a Ferapònt, usciere sordo e poco presente a se stesso, di non amare più Natascia, e quando Ferapònt lo avverte che "non sente" Andrej gli risponde che se non sapesse che è sordo sicuramente non gli parlerebbe in quel modo. Quale migliore modo di giungere così direttamente allo spettatore mantenendo ancora una velata verosimiglianza da teatro naturalista?
Insomma altro che "non succedere niente" il testo è ricco di spunti e riflessioni che vanno dalla storia e dalla cultura russe ((...)il Dramma è conflitto. (...) tirate le somme la definizione è valevole (...) ma (...) in Oriente essa sembra perder valore: il Dramma in Asia diventa qualcosa di meno precisato, di più indistinto. Ed ecco che già Cechov ci dà la sensazione dell'Oriente, dell'Asia; d'una tragedia d'apparenze informi, tempio di uno spirito immobile3) al modo in cui un testo scritto per il teatro può essere messo in scena, trasposto e recitato.
Ed è proprio su questi versanti che l'allestimento della Compagnia "Officine Puricelli" non convince fino in fondo.
Nel testo sono stati apportati alcuni tagli, atti, immaginiamo, a snellire la narrazione e renderla più fruibile. Pazienza per le citazioni letterarie, copiose nel testo, quasi del tutto espunte nello spettacolo. Quello che lascia perplessi sono alcuni tagli ai dialoghi dei personaggi (Cebutykin che regala a Irina un preziososamovar d'agento confessandole che se non ci foste voi, a quest'ora... eh, a quest'ora non sarei più in questo basso mondo... 4, il barone che vagheggia di lavorare e tornare a casa stanco come un operaio, Irina che, appresa la morte del suo futuro sposo, decide lo stesso di andare a insegnare abbandonando le sorelle...), piccoli impercettibili tagli, qualche rigo appena, che però sortiscono l'effetto di rendere la storia ancora di più concentrata sulle vicende amorose, togliendo alle tre sorelle protagoniste quella consapevolezza di sè che hanno nel testo integrale per cui, a tratti, si ha l'impressione di assistere a una riduzione televisiva del testo che semplifica e appiattisce i dettagli a favore di un unico punto di vista narrativo.
Questa impressione televisiva è sostenuta anche dalle performance di alcuni attori e attrici (non tutti) ai quali manca l'accortezza di non correre, il mestiere di pronunciare le frasi con minore velocità di quella richiesta altrove (di qui il paragone con la tv che non vuole essere irriverente). Crediamo d'altronde che la responsabilità per molte delle inefficienze recitative degli attori sia da imputare alla regia.
Una regia che ha la massima cura nella messa in scena, partendo da un impianto scenografico povero assai efficace, di Alessandro Vannucci, così come il raffinato gioco di luci, affidato a un sapiente uso delle candele in scena (che nel terzo atto reggono da sole tutta l'illuminazione) o la felicissima transizione tra il terzo e il quarto atto quando, a sipario aperto, gli attori accatastano gli oggetti di scena per allestire uno spoglio giardino, rimanendo "in parte" e salutandosi come sì fa, appena svegli, quando ci si incontra al mattino in una casa molto grande. Si sente la mano felice del regista che, nell'allestire lo spettacolo, si è preso delle libertà rispetto il testo, libertà che restituiscono anche il senso dell'operazione, del portare in scena quel determinato testo.
Purtroppo il regista non ha creduto di dover curare con altrettanta perizia la recitazione dei suoi attori. Manca allo spettacolo un'idea generale di recitazione con la quale confrontarsi o, magari, dalla quale prendere le distanze, per cui nella direzione degli attori convivono certi anacronismi come la gonna davvero troppo corta indossata da Maša nell'ultimo atto o, più in generale, la postura e il linguaggio del corpo degli attori tutti davvero troppo moderna, con certi dettagli naturalistici, il catino d'acqua nel quale si lava Cebutykin, fin troppo insistiti.
Per cui alla fine ci si chiede un po' il perché di questo allestimento, l'urgenza che ha portato la compagnia ad affrontare lo sforzo notevole (anche perché quasi del tutto autoprodotto) di portare in scena Tre sorelle. Ci permettiamo di chiederlo perché nelle note di regia si legge che la motiviazione che ha spinto la compagnia è proprio la necessità di portare un punto di vista moderno, e ormai elaborato negli anni da molti di noi intorno al lavoro dell'attore, in una drammaturgia classica e complessa come quella di Anton Cechov ...proprio l'elemento sul quale lo spettacolo è più manchevole: il lavoro sull'attore.
Non ci fraintenda il lettore. Queste critiche le solleviamo con il massimo della stima per il lavoro proposto: riuscire ad allestire un testo che richiede più di 10 attori in scena, senza l'ausilio di un produttore vero e proprio, con una circuitazione che ha visto dare loro spazio solo grazie all'ostinazione di due dei teatri che da sempre si impongono sulla scena romana al di fuori delle mode culturali quali il Colosseo (dove ha debuttato il 23 settembre) e ora rirpeso al Furio Camillo (dove rimane in scena fino al prossimo 19 ottobre), permettendo al pubblico di assistere a un grande classico del teatro del novecento, è uno sforzo che non può non essere sostenuto e difeso, senza per questo far finta di nulla dinanzi ai difetti che l'allestimento presenta.
Uno spettacolo da vedere insomma, messo in scena da chi il teatro lo fa perché il teatro lo ama e questo il pubblico lo capisce subito.
Tre Sorelle, Roma, teatro Furio Camillo, fino al 19 ottobre 2008
1) Silvio D'amico Storia del teatro drammatico Bulzoni, Roma 1982 (1960) p. 201
2) Silvio D'amico, op. cit., p. 203
3) Silvio D'amico, op. cit., p. 202
4) Anton Cechov Teatro a cura di Gerardo Guerrieri Mondadori, Milano 2008 (1990) p. 122
Visto il
al
Furio Camillo
di Roma
(RM)