Incontriamo la fondatrice ed anima di Ravenna Festival - una delle maggiori rassegne artistiche europee – che sempre più spesso si accosta all'attività di regista d'opera.
Da piccola seguiva il padre, dentista per professione e burattinaio per passione, da un paese all'altro del Polesine. E cantando e recitando nei suoi spettacolini, scoprì d'avere una bella voce. Malgrado solidi studi musicali e l'inizio di una carriera promettente, Cristina Mazzavillani Muti, dopo aver sposato uno dei più grandi direttori del mondo – Riccardo Muti – ha rinunciato alle scene. Abbiamo perso una buona voce, ma guadagnato una manager eccezionale. E una regista di grande talento.
Lei possiede un'energia incredibile: pilota una corazzata come il Ravenna Festival, ma trova il tempo per cimentarsi in campo registico... da dove viene tanta passione?
Io dico che il teatro era già nel mio DNA... Mio padre faceva il dentista, ed era un collezionista di burattini. Insieme con altri due medici, con i quali esercitava su e giù per gli argini del Polesine e che lo spalleggiavano in questa sua passione, dopo aver curato le persone del posto montava uno dei suoi teatrini. Ed insieme intrattenevano – dando voce ai vari personaggi - un pubblico che andava dai 5 ai 95 anni, portando un sorriso là dove ce n'era bisogno. Per me, che accompagnavo quella bella cricca sin da piccola, è stata una preziosa lezione di vita: le piccole emozioni sanno procurare nella gente grandi, veri stupori. E siccome dovevo riempire gli intervalli recitando e cantando - «Vai, vai bambina», mi dicevano - ho scoperto di avere una bella voce. E così dopo un po' ho lasciato il liceo e la famiglia, e sono andata via da Ravenna a soli 16 anni a studiare canto: prima nel conservatorio di Venezia, poi in quello di Milano. Era una vita divisa tra centomila fatiche, ma si doveva pur fare... Ho debuttato come cantante, ma dopo il matrimonio con Riccardo (nel 1969, n.d.r.) ho messo da parte le mie aspirazioni di “teatrante”, pur continuando a vivere da dietro, con lui, le scene e la musica.
Com'è nato Ravenna Festival?
Stavamo trasferendoci da Firenze a qui, quando il nostro sindaco di allora ed il senatore Benigno Zaccagnini – amico di famiglia, uno dei tre "medici burattinai" – facendo appello a quello spirito di servizio che non mi ha mai abbandonato, mi chiesero di fare qualcosa per la città. Così diedi vita a questo festival, mettendoci al centro Ravenna, città unica per i suoi tesori artistici, con una storia impressionante, ponte tra Roma e Bisanzio e tra differenti culture. Di qui i concerti de Le vie dell'amicizia, ed i programmi che ponevano al centro il mare, i viaggi, lo sguardo verso Oriente e culture diverse dalla nostra. Non solo del Mediterraneo, ma anche ben oltre, come le due edizioni rivolte alla Russia e all'Africa. Poi le ultime dedicate alla Grande Guerra, a Nelson Mandela, a Martin Luther King, e un occhio alla musica d'oggi, pop e rock compresi, non solo a quella classica. Persino mettendoci dentro, di recente, il ballo popolare romagnolo. Dal 1990, ogni edizione è stata sempre diversa dalle altre, e se penso che sono passati quasi trent'anni... mi spavento! Per mia fortuna, ho da sempre dei collaboratori preziosi.
Come vedono il Festival, manifestazione ormai di respiro internazionale, i tanti artisti che lo animano ogni anno?
Si trovano benissimo, tanto che si creano anche bei rapporti, nascono persino amicizie che durano nel tempo. Lo spirito è anche quello di un laboratorio dove si stabiliscono dei legami tra gli artisti. Abbiamo portato in Italia per la prima volta Robert Carsen che poi è andato dritto alla Scala, e il Teatro Helikon di Mosca; e spettacoli innovativi come I La Galigo e Rumi di Bob Wilson, Macbeth di Misha Von Hoecke, Otello di Nekrosius, I demoni di Peter Stein, Cinderella di Matthew Bourne, penso a Josef Svoboda... Umilmente, nelle mie regie mi sono sempre ispirata a loro, pensando un minimalismo che però sappia dare spazio alla sostanza, senza fronzoli inutili. Andando sempre al centro del dramma, e dando grande forza ai personaggi.
La sua prima regia risale al 2001: I Capuleti ed i Montecchi, a Ravenna ovviamente. A seguire, il Trovatore. Regie belle ed innovative, tra i primi esempi di utilizzo delle immagini virtuali.
Intanto, ho fatto di necessità virtù, non adottando scenografie tradizionali. Ci sono oggi mezzi espressivi – video, audio, luci - che non mettono freni alla fantasia. E poi io ho la fisima delle sperimentazioni. Anche Verdi andava alla ricerca di “effetti speciali” fantastici per i suoi lavori, si preoccupava moltissimo della messinscena. Per esempio in Nabucco, che ho ora affrontato per la prima volta, sono previsti - anche in musica - il fulmine che porta via la corona, l'incendio di Gerusalemme, l'idolo infranto. Se fosse vissuto oggi, Verdi – che per Macbeth ha inventato la “macchina del vento” - avrebbe fatto volentieri uso delle nuove tecnologie.
Credo che la sua più bella regia sia quella di Falstaff, diretto a Ravenna prima da Paszkowski e poi da suo marito. Giocosa, garbata, tutta un gioco di trasparenze...
Io amo molto quel Falstaff. Ci ho messo, anche se non sembra a prima vista, lo spirito del teatro dei burattini. E' la commedia delle maschere, ma anche dei sentimenti veri e della magia delle fate. Verdi, che non pensava a portarla in teatro, avendola scritta per sé, la immaginava eseguita nel suo giardino di Sant'Agata.
Più volte lei si è accostata anche all'opera moderna con Pietra di diaspro, Tenebrae, L'amor che muove il sole di Adriano Guarnieri, compositore per così dire “strano”...
Amo molto il lavoro di Guarnieri, che è un compositore eccezionale. Un po' strano, se vogliamo, ma come tutti quelli che oggi hanno il coraggio di scrivere musica per il teatro. E strano come i geni del passato, persone mica tanto normali... Guarnieri ha la grande capacità di vestire gli spazi sonori in una maniera particolarissima, unica, inconfondibile. E di mettere in campo tutte quelle moderne tecnologie che io amo così tanto. E' un altro modo per far capire ai giovani quali meraviglie, e quale poesia si possono fare con esse.
Dopo Trovatore, ha affrontato altre celebri opere verdiane:Traviata, Rigoletto, Macbteh, Otello, Falstaff e ora anche il Nabucco. Qual'è il suo rapporto con il teatro di Verdi?
Verdi non basta mai, non si finisce di esplorarlo, è sempre attuale. Preparando Nabucco per la prima volta, per la Trilogia d'autunno di quest'anno, ne ho sono sentito il corpo e l'anima in mano. Lui amava tanto questo mondo biblico, un mondo misterioso e di profezie. Tanto da mettere ad ogni quadro un versetto da Geremia, che io presento sottolineato da uno spazio sonoro elettronico. Ed ho capito che i temi di base dell'opera sono due: la conversione, che può toccare tutti, e lo scontro di civiltà, con sacerdoti che si credono onnipotenti, ma poi cedono... sono temi attualissimi.
Con la maratona lirica autunnale dell'anno scorso si è accostata invece al teatro verista:Tosca, Pagliacci, Cavalleria.
Dopo aver fatto La bohéme, che può essere già un inizio di verismo, ho avuto voglia di camminare attraverso una musica che secondo me ha dato il via anche al musical americano. Senza Puccini, è inutile negarlo, non ci sarebbero stati i lavori di Gershwin, Porter, Bernestein. Lo si capisce anche dagli spettacoli Così muore Mimì e soprattutto Mimì è una civetta, rivisitazioni in chiave moderna della Bohéme, che misi a comporre una specie di trilogia mescolandoci anche bravissimi giovani cantanti da musical. Poi il Puccini di Tosca, e due musicisti squisitamente veristi come Mascagni e Leoncavallo sono venuti da soli, inevitabilmente.
Lei dà sempre molto spazio ai giovani, e non solo come spettatori. L'anno scorso le opere della Trilogia erano precedute da brevi spettacoli ideati dai ragazzi di Ravenna.
Certo... ogni anno faccio tantissime audizioni dove i ragazzi dagli 8 ai 18 anni si presentano con quello che sanno fare: suonare, recitare, ballare – anche il rap, perché no – dipingere, scrivere, usare le nuove tecnologie. Poi si vede come utilizzarli nel nostro festival. E' un modo per capire come si sta evolvendo, e dove sta andando il mondo giovanile. Sono il nostro futuro, ma non ne sappiamo mai abbastanza.