Teatro.it incontra la ballerina Mara Galeazzi, che dopo una carriera da principal dancer e guest al Royal Ballet di Londra, è impegnata in un progetto di beneficenza per la ricerca sull’Aids.
Un grand jeté sospeso fra il mare e il deserto nel golfo dell’Oman. I piedi della ballerina questa volta affondano nella sabbia finissima di Yiti Beach a Muscat, la capitale dove vive dal 2013. Non ci sono artifizi. Non c’è applauso. Mara Galeazzi, già principal dancer e guest al Royal Ballet di Londra, cerca il contatto con l’acqua e con il vento in un paesaggio da sogno che, tuttavia, fa pensare alla solitudine.
Ma anche alla libertà. E’ questo il breve filmato che ha realizzato per il progetto di beneficenza a favore della ricerca sull’Aids in memoria di Rudolf Nureyev e Freddie Mercury, a cui partecipano diversi artisti sparsi per il mondo. S’intitola “Sola” ed è il suo contributo, su musica di Max Richter, all'evento “The naked truth” di Joshua Royal, che sarà in streaming il prossimo primo dicembre alle 19.30 sui canali social di House of Rainbows.
Mara Galeazzi, si parla da mesi di Covid 19: ci siamo dimenticati il virus Hiv?
Il virus dell’Aids, su cui ancora non esiste vaccino, è un flagello da decenni ormai. Non bisogna dimenticare che le popolazioni più povere al mondo sono le più esposte e quelle che hanno meno risorse per curarsi e tenere a freno l’insorgere della malattia. Questo progetto prosegue un ciclo di attività benefiche per la raccolta di fondi a cui mi dedico dal 2007.
Lei dirige la fondazione “Dancing for the Children”: la danza può essere un aiuto concreto?
Senza dubbio. Lo dimostra il lavoro svolto finora. La fondazione è nata nel 2007 a Londra per promuovere la conoscenza delle arti e del balletto allo scopo di dare sollievo a bambini e ragazzi affetti da malattie e disabilità e ai loro familiari. Attraverso eventi di spettacolo e formazione organizzati in Europa e in Africa abbiamo raccolto risorse importanti per la ricerca scientifica. Ma la nostra attività non si esaurisce in uno spettacolo: è contatto con la gente del territorio, lavoro con i bambini delle scuole, dei villaggi, degli orfanotrofi.
Cosa l’ha spinta a dedicarsi alla raccolta di fondi per la ricerca sulle malattie?
Qualche anno fa ho scoperto di avere una patologia che pensavo mi avrebbe fatto smettere di danzare. In realtà è stato il contrario. Mi ha dato ancora più forza per proseguire nella mia carriera. Però qualcosa dentro di me è cambiato. Mi sono ritrovata come quando ero piccola e raccoglievo ritagli di giornali sui problemi di povertà dei paesi meno sviluppati. Ho sempre avuto questa sensibilità, che credo mi abbia trasmesso mia madre. Più che la ballerina, volevo fare la missionaria in Africa.
E in Africa alla fine ci è andata con “Dancing for the Children”
E’ un’esperienza emozionante. L’avvio del primo progetto in Africa, nel 2007, è stato esplosivo. Con i colleghi del Royal Ballet abbiamo organizzato gala di beneficenza a Pretoria, Cape Town, Nairobi e Mombasa. Una full immersion di quindici giorni molto intensa, con due spettacoli di balletto in ogni città e molti laboratori. Lavoravamo in un ambiente così diverso dal nostro, abituati alla Royal Opera House. I fondi di quei gala sono stati distribuiti tra enti di beneficenza locali sia grandi che piccoli, in particolare quelli che aiutano i bambini svantaggiati a esplorare le gioie della danza e quelli che aiutano a combattere la diffusione di malattie, come l’Aids.
Recentemente avete scoperto anche il talento di Anthony, il ragazzino nigeriano che ha caricato sui social il video, poi virale, della sua danza sotto la pioggia nel fango.
Mi hanno segnalato il video su youtube di quel ragazzino strepitoso e ho subito informato la Fondazione. Abbiamo trovato fondi per aiutarlo nel suo percorso in Nigeria. Studia in una scuola che è stata aperta da un autodidatta per tenere lontano i ragazzi dalla strada. Poi un’accademia inglese molto selettiva gli ha dato una borsa di studio. E da poco anche la scuola dell’American Ballet Theatre di New York ha deciso di sostenerlo. Insomma, è stato avviato un percorso virtuoso. (Video disponibile alla fine dell'intervista)
Quanto la impegna questa attività?
E’ un secondo lavoro. Ero ancora al Royal Ballet quando ho cominciato e mi dividevo fra spettacoli, prove e organizzazione di eventi. Ma i risultati a fronte dell’impegno sono soddisfacenti. Oltre al sostegno di sponsor e donatori, riusciamo a fare sempre sold out e a donare a ospedali e centri di ricerca. La cosa più bella è il lavoro sul posto con i bambini, curiosi e con tanta voglia di conoscere la danza.
Lei che bambina era quando è entrata alla scuola di ballo del teatro alla Scala?
Introversa. Non è stato facile integrarmi. Venivo da un piccolo paese in provincia di Brescia e mi sono ritrovata improvvisamente a Milano. Frequentavo il corso di Antonietta Cozzi e Amelia Colombini. Severe ma comprensive. Devo ammettere che i docenti mi hanno sostenuto.
E’ volata a Londra a 18 anni…
Appena dopo il diploma sono stata chiamata al Royal Ballet. Ho potuto conoscere Antony Dowell, Kenneth MacMillan, Ahsley Page e poi Glen Tetley, che mi ha dato tantissimo, infine William Forsythe e Christopher Wheeldon. Ho interpretato e creato molti ruoli ma è stato Wayne McGregor che, dopo i 30 anni, mi ha spinto a fare cose incredibili. Mi ha scelto per “Chroma”, uno dei suoi primi balletti, “Infra” e “Limen”. Il suo modo di lavorare è stato una rivelazione sia a livello mentale che fisico. Recentemente sono tornata a Londra come ospite per interpretare il suo “Woolf works” alternandomi con Alessandra Ferri che ha creato quel ruolo. Anche in questo caso è stato emozionante. Lui mi ha dato fiducia in me stessa e possibilità di estendere le potenzialità oltre il classico.
In cosa si distingue il lavoro del Royal Ballet?
Nell'attenzione alla qualità della coreografia e all'espressione. Nel modo di recitare e di esprimere il movimento nei dettagli e nella velocità dei passi.
Prossimi progetti?
Per ora sono saltati a causa del Covid 19. Ma il 2021 è già foriero di proposte. Intanto il mio amico fotografo Jason Ashwood, che mi segue da qualche anno, sta scrivendo un mio memoir che pubblicheremo in Inghilterra.
Come si trova a Muscat?
Mi sono trasferita nel 2013 con mio marito, Jurgen, direttore di scena della Royal Opera House di Muscat, e con mia figlia appena nata. Qui arrivano tutte le grandi compagnie del mondo. Il posto è stupendo, c’è un clima di pace ovunque. Devo ammettere però che provo a volte una certa solitudine, non affettiva ma artistica: il Paese non ha accademie di danza e compagnie e durante il lockdown i miei spettacoli in Europa sono stati tutti annullati. Sento la mancanza dell’Italia.
Mi piacerebbe danzare di nuovo con Gabriele Corrado, un artista meraviglioso. Ma soprattutto riabbracciare mia madre, che non vedo da febbraio a causa del Covid. E chissà se sarà possibile organizzare un gala di beneficenza.