Di recente applaudito in Aida all'Arena di Verona, il tenore Fabio Sartori, vero globetrotter della lirica, si racconta a Teatro.it in questa intervista
E' di casa da vent'anni alla Scala, Fabio Sartori. Ma canta sovente anche a Vienna, Berlino, Mosca, New York, Londra. E nei maggiori teatri italiani. Un vero globetrotter, di recente applaudito in Aida all'Arena, e in Don Carlo alla Wiener Staatsoper.
Caro Fabio, mi pare che lei sia diventato di casa al Teatro alla Scala!
E' vero! Ci ho cantato tante volte, lavorando sempre volentieri con i suoi vari direttori, e vedo che il pubblico milanese mi vuole bene. Sono arrivato a Milano nel 1997: Messa di requiem di Verdi con Muti sul podio, ed apertura di stagione sempre con lui, come Malcom in Macbeth. Ho goduto della stima di Lissner prima e di Pereira poi, che mi hanno chiamato tante volte a cantare... Pereira poi mi conosceva sin da quando era sovrintendente a Zurigo, dove ho debuttato i miei ruoli più importanti. L'anno scorso, come sai, ho aperto la stagione con Attila, diretto da Chailly. In vista ci sono altre nuove produzioni, fra cui pure un paio di inaugurazioni di stagione. Ma è ancora presto per parlarne.
Placido Domingo, quando gli hanno chiesto se fosse possibile riproporre “I tre tenori”, ha fatto il suo nome, insieme a quello di Jonas Kaufmann e Piotr Beczala.
Sì, è vero. E visto da chi è arrivato il giudizio, mi ha fatto un grandissimo piacere, anche se in fondo ritengo di non essere un tenore migliore degli altri. Devo dire che Placido, con cui ho cantato tante volte, ha una grande stima di me sia come persona, come artista e come voce. Una voce chiara che tra l'altro lui trova si combini bene con quella sua attuale, scura, da baritono, tanto da chiamarmi qualche volta ad affiancarlo. Più avanti infatti mi ha chiamato a cantare nel suo teatro a Los Angeles.
Fatte le debite proporzioni, per colore, espansività e dolcezza della voce possiamo considerarla tra gli eredi di Pavarotti. O no?
Beh, in effetti io ho sempre giocato sulla mia struttura fisica, simile alla sua (ride)... ma mi fai pensare che in occasione del Don Carlo viennese di dieci giorni fa, alcuni appassionati d'opera mi dicevano che certe volte mi escono dei suoni, delle emissioni, dei legati che a loro ricordano il grande Luciano. Io però cerco solo di riprodurre la leggerezza e la facilità con cui lui cantava, volando sopra le note. Però sinceramente io trovo che la mia voce sia più simile a quella di Carlo Cossutta, grande Radamés e grande Otello.
A proposito di Otello, debutterà col Moro al Maggio Musicale Fiorentino, l'anno prossimo.
Sì, proprio all'inaugurazione, e non è stata una decisione facile. La parte è molto ardua, e mi è stato proposta tempo fa da Fabio Luisi, che doveva dirigere quest'opera. Lui pensava per il ruolo di Otello un tenore di grazia ed elegante, diverso dai soliti. Per me il 'numero uno' resterebbe Del Monaco, ma oggi in effetti quel genere di canto irruente non si usa più, questione di gusti... Luisi ha vinto le mie esitazioni facendomi osservare che la partitura è cosparsa di indicazioni di piano e mezzoforte, che richiedeva la resa di tanti colori, di certe sfumature. Voleva un tenore lirico pieno, ma che potesse anche rendere tutte le sfumature necessarie. Allora ho detto va bene, proviamo. Otello deve essere scavato a fondo, cesellato nella declamazione, centrato nel personaggio: farò anche una settimana di studio del ruolo con Placido Domingo – grandissimo Otello - che si è reso disponibile a darmi una mano. Nel frattempo la bacchetta è passata a Mehta, che pur di farlo ha rinunciato a qualche concerto. Se tutto va bene, sarebbe pronta l'occasione per replicare Otello in un altro importante teatro. Ma non avrei intenzione comunque di cantarlo spesso, per non affaticarmi troppo.
A quanto pare, al centro del suo repertorio c'è molto Verdi, anche quello giovanile.
E' vero. Quando canto Verdi, sento che quello che ha scritto è proprio adatto alla mia corda. Come scrittura, come tessitura, come modo di porgere le frasi. Con Verdi mi trovo veramente bene. Anche nell'ultimo Don Carlo di Vienna mi sono goduto tutti i 4 atti, sentendo che la mia voce correva e risaltava bene. In fondo è una fortuna che mi sia 'specializzato' in un solo compositore che mi dà modo di brillare al meglio, piuttosto che affrontarne tanti senza magari approfondire il loro stile.
Manager artistici, affare piuttosto complicato. Come si trova con il suo?
Molto bene, direi! Alessandro Ariosi è molto accorto e scrupoloso, uno che si mette una mano sul cuore e non rovina mai un artista. Nel mio caso sta molto attento, prima di chiudere un contratto, non solo alla parte ma anche a chi dirigerà, a quante prove siano in programma. Controlla persino chi canterà con me, in modo che le nostre voci si fondano bene. E che non mi trovi magari al fianco un soprano che urla, e che non c'entra nulla con la mia voce. Con lui siamo d'accordo a non superare le 45, massimo 50 recite all'anno, non di più. Bisogna anche riposare... e lasciare spazio ai giovani.
Ha debuttato nel 1996 in Bohéme. Da poco ha cantato in Tosca a Verona. Nel 2020 sarà Rodolfo a Torino, Pinkerton a Vienna, Cavaradossi a Berlino. Con Puccini come stiamo?
Tasto dolente... quando affronto Puccini un po' soffro. Fin che si tratta di cantare in Tosca, dove come Mario incontro una tessitura mediana, espansiva, un carattere passionale, mi trovo a mio agio: se guardiamo bene, in fondo ha una linea di canto, uno stile che si avvicinano a Verdi. All'Arena quest'estate mi hanno sempre chiesto il bis di “E lucean le stelle”. Con Pinkerton mi sento già un po' a disagio, con Des Grieux e Calaf siamo a quota zero, o quasi. Turandot... mai cantata sulla scena, anche se era prevista a Monaco. Anzi, avevo già un contratto anche con il Metropolitan per 4 recite di Turandot, ma quando ho iniziato a studiarla ho visto che pur se tecnicamente la potevo fare benissimo, la parte mi pesava molto: perché volevo essere generoso, e volevo dare troppo. Ci ho ripensato e ho preferito cancellare il contratto. Si può vivere bene anche cantando Calaf solo in concerto. Non voglio fare come certi colleghi che ne fanno un puntiglio, che vogliono cantare sempre questa parte che in effetti è molto popolare. Va a finire che ti propongono Calaf per tutta la vita, anche se ti accorgi che alla fine la tessitura non è più per te. Una mattina ti alzi, sei in difficoltà o non stai tanto bene, e devi cantare lo stesso. Anche perché oggi non si usa più, per risparmiare, tenere pronto un sostituto.
Nonostante la stazza imponente, in scena riesci ad essere disinvolto lo stesso.
Beh, qualche esercizio a casa lo faccio (ride), e poi cerco di tenermi allenato, faccio delle belle camminate appena posso. Perché se devo buttarmi per terra, devo anche potermi rialzare senza problemi, come nell'ultimo Don Carlo di Vienna. Me lo diceva anche Livermore, durante le prove di Attila: "Fabio, hai una agilità, un modo di muoverti che non mi aspettavo".
A proposito di registi, che rapporto hai con loro?
Rispetto tutti, collaboro con loro senza problemi, ma mi trovo meglio con i registi innovativi si, ma con intelligenza. Gente appunto come Livermore, che ha molta fantasia ma anche rispetto per gli artisti: se abbiamo una difficoltà, ti ascolta e trova una via di mezzo. O come McVicar, col quale ho appena fatto I masnadieri: regista non facile, molto energico e volitivo ma profondo, che in palcoscenico ti fa tirare fuori la grinta. Un altro molto bravo ma impegnativo è Hugo De Ana, col quale ho fatto Tosca in Arena. Palcoscenico imponente, sul quale devi correre, ma che lui ha gestito bene. Fra poco riprenderò al Liceu di Barcellona i Pagliacci di Michieletto, già fatto a Londra, che mi obbliga a stare in scena tutto il tempo - anche quando non canto - con questa ruota che gira e che ti impone di muoverti in continuazione e fare certe azioni. Non è stato semplice inserirsi, ma una volta capite le ragioni della scelta, non ho avuto difficoltà. Il vero problema è che oggi il regista conta ormai più del direttore. Un De Ana oggi ha più potere di un Oren o di un Mehta. E le nuove leve della regia badano spesso più all'aspetto del cantante, a come figura fa in scena, che alla qualità della voce ed alla proprietà di stile. Io per fortuna sono un tenore confermato, strapieno di lavoro, queste cose non mi toccano.
Che mi dice allora di certo regietheater?
Quello che ti fa cantare a testa in giù su una panca? Odio queste regie ultramoderne, che vanno per la maggiore in Germania e in Austria, piene di strane trovate. E che non tengono quasi mai conto della musica, né delle esigenze dei cantanti. Io ho appena fatto un Simon Boccanegra (alla Wiener Staatsoper, regia di Stein, ndr) dove il Doge sonnecchia guardando i cartoni di Tom&Jerry, e dove entra in scena uno vestito da apicoltore che lo disinfetta dalla lebbra. Per questo motivo evito di andare al Covent Garden, dove le regie sono troppo moderne per i mie gusti.
Era in Adriana Lecouvrer a Firenze, e Pagliacci lo canta spesso. Ma frequenta poco il repertorio verista.
E' vero! Maurizio dell'Adriana è una parte che mi interessa molto, non l'ho più fatta ma conto di cantarla di nuovo. Canio mi piace, me lo chiedono spesso, lo interpreto volentieri. Ruolo breve, ma assai impegnativo: dopo averlo fatto a Barcellona, lo lascio in sospeso per almeno due anni. Ti do un'anticipazione: c'è in prospettiva il debutto a Vienna in Andrea Chènier, ma la cosa è ancora da definire nei dettagli.