Sopporta male i disagi dei lunghi voli, ma non rinuncia a girare il mondo come cantante richiestissimo, e talvolta come regista. Il grande basso-baritono veneziano racconta a Teatro.it la sua carriera trentennale.
Ha fatto di Mozart e Rossini il perno della sua carriera, cantandoli nei più grandi teatri. Lorenzo Regazzo vanta una ricca discografia, divisa fra opere complete e recital monografici dedicati a Vivaldi, Händel, Rossini... e alla sua Venezia. Città dove è nato, dove vive -quando non è in giro per il mondo- e dove l'abbiamo raggiunto.
Cantante rossiniano e mozartiano prima, e barocco poi. Con qualche incursione in Donizetti e Bellini. Vieni considerato un interprete d'eccellenza in ognuno di questi campi.
Il mio debutto l'ho fatto con Rossini, e dopo ho affrontato anche Mozart; e solo in un secondo tempo mi sono dedicato al barocco, e quasi limitatamente a due autori, Vivaldi ed Händel. Di Rossini mi appassiona l'ambito più gioioso ed estroso, però ne ho cercato pure la vocalità 'seria' sostenendo ruoli come quelli di Mosè, Maometto II, Assur di Semiramide. Di Donizetti canto molto poco, in realtà. Di Bellini, pressoché nulla...
Hai un curriculum di studi di tutto rispetto: laurea in lettere, diplomi di pianoforte, di direttore di coro, di composizione, di canto didattico...
Tutte cose entrate poi a far parte del mio bagaglio artistico, ma la svolta verso il canto lirico è avvenuta un po' in ritardo rispetto ad altri colleghi, avendo cominciato dopo i vent'anni. Sono sempre stato un amante sia del teatro di prosa che del teatro lirico, e del cinema. Mi appassionava la recitazione come arte. Poi c'è stata una convergenza tra questo interesse e la mia formazione musicale. Diciamo la fusione del famoso recitar cantando, che finalmente sono riuscito a conglobare insieme come interprete d'opera. Il mio esordio in scena è avvenuto nel 1991, al Teatro Bibiena di Mantova come Don Basilio nel Barbiere di Paisiello, ma già dal 1989 avevo iniziato ad esibirmi in concerto. Quindi ho da poco festeggiato i trent'anni di carriera.
Hai una particolare attrazione per il genere comico, grazie alla presenza scenica e alla recitazione briosa.
Dico subito che il mio bagaglio tecnico e la mia formazione scenica li devo principalmente a Sesto Bruscantini, col quale ho studiato a lungo. Mi sono formato anche con altri bravissimi didatti, ma le cose più importanti le devo a lui. Soprattutto mi ha trasmesso l'idea che non si deve intendere il canto con superficialità, né narcisisticamente, o peggio egoisticamente, bensì con massima etica e serietà professionale. Principi che a mia volta cerco ora di trasmettere ai miei allievi. Bruscantini è stato una figura ciclopica, un cantante modernissimo, eccezionale sia nel repertorio buffo che nei ruoli drammatici. Tuttavia l'inclinazione verso il repertorio comico, la facilità di stare in scena, la predisposizione alla recitazione sono caratteristiche mie naturali, spontanee.
Quali sono i tuoi ruoli preferiti?
Ovviamente quelli che ho cantato maggiormente, Mustafà dell'Italiana in Algeri su tutti, anche se ultimamente l'ho un po' messo da parte. E poi i ruoli mozartiani come Figaro, Leporello, Masetto, Don Alfonso, che ho interpretato tante volte in tutto il mondo. Di Rossini, comunque, amo tutti i più famosi personaggi comici. Ed il Mosè di Mosè in Egitto: pur non avendolo fatto in teatro, ma solo inciso con Antonino Fogliani. Una registrazione che ha avuto molto successo, devo dire. E mi appassionano molto le due figure donizettiane di Dulcamara e Don Pasquale.
Ti senti più basso, o più baritono? Di certe opere – come Barbiere di Siviglia, Turco in Italia e Italiana in Algeri – hai ricoperto pressoché tutti i ruoli per voci gravi.
Rispondo citando ancora Bruscantini, il quale affermava che la voce è di per sé assai versatile. Non ha importanza che voce sei: basso, baritono, od altro; la cosa più importante è come ti poni di fronte ad un personaggio. Certo, devi avere la tecnica adeguata e l'estensione giusta per quello superare le difficoltà che esso richiede. Ma se hai l'intelligenza adatta per affrontare quel particolare ruolo, la voce ti segue fedelmente nel tuo percorso. E' una cosa che ripeto spesso a chi frequenta una mia masterclass, quando mi chiede che tipo di voce hanno. Quindi se in Cenerentola io affronto Don Magnifico piuttosto che Alidoro, conta la consapevolezza del personaggio, il carattere e lo stile necessari. Indipendentemente dal registro che hai, sia di basso cantante o di basso profondo.
Hai mai desiderato di cimentarti con Verdi? Ti vedrei benissimo come Boccanegra, Silva, Filippo II o Grande Inquisitore.
Quando studiavo con Alain Billard, che ricordo con molto affetto, lui mi fece provare molti ruoli verdiani. Mi diceva che avrei potuto affrontarli tranquillamente in palcoscenico, ma nella mia consapevolezza finale mi sono sempre tenuto alla larga. C'è il mito che un basso, un baritono debbano arrivare come compimento della carriera ai grandi ruoli verdiani. O che una voce di mezzosoprano debba approdare per forza a Sansone e Dalila, ad Eboli, ad Azucena. Questo per me non è mai arrivato né arriverà mai, perché ho circoscritto la mia vocalità ad un certo tipo di figure, e non intendo più allargare il mio repertorio. Certo, conta molto come ragioni con la voce, come la usi. Con l'allenamento, l'esercizio particolare, con la maturità vocale uno può arrivare dove vuole, se sente la sua voce rispondere in maniera ottimale. Ma non è il mio caso. Preferisco perfezionare, magari scoprendo qualche cosa che prima non avevo intravisto, quei ruoli che conosco già. Per rispondere, ii personaggi verdiani non li ritengo confacenti alla mia sensibilità, e neppure alla mia voce.
Rarissime le tue incursioni nel repertorio d'oggi, con due prime assolute: La brocca rotta di Flavio Testi, e Isabella di Azio Corghi. Anni 1997 e 1998. Poi basta, perché?
Sono stati peccati di gioventù, senza seguito. Come spettatore adoro il repertorio contemporaneo, ma come interprete lo lascio ad altri senz'altro più preparati di me. La musica contemporanea, a torto o a ragione, presuppone interpreti e cantanti specializzati. Anche se il termine 'specializzato' non mi piace molto. Per dire, io sono spesso etichettato come cantante barocco, ma in questa definizione limitativa non mi ci trovo. Sono semplicemente un cantante che ha sviluppato un repertorio confacente alla propria sensibilità e conformazione vocale.
Mi pare che negli ultimi tempi stai diradando gli impegni in teatro. Ti ha stancato il palcoscenico?
Devo rivelare una prima cosa: dopo trent'anni di carriera io sono diventato idiosincratico ai lunghi viaggi in aereo. E' una mia fragilità: le turbolenze non le sopporto proprio più. Già nel volare da Venezia a Napoli, a Catania, comincio ad avere qualche problemino... figuriamoci andare più lontano! A fine aprile dovrò recarmi in Giappone per tenere un master, e comincio ora a preoccuparmi. Se possibile, preferisco viaggiare in treno; e poi, a complicare le cose, come molti veneziani non ho mai preso la patente. Questo mi porta a qualche inevitabile rinuncia: qualche anno fa ad esempio ho declinato l'invito a cantare al Bol'šoj in un titolo allettante, per non affrontare un volo di tre ore e mezza. Comunque, non sono affatto stanco di cantare. Anzi mi piace riprendere certi ruoli – ad esempio Don Pasquale – che facevo in un certo modo a 40 anni, e che a 50 sento in maniera diversa. Questione di età e di maturità.
Infine confesso un'altra cosa: stare per sei settimane di fila in una città dall'altra parte dell'Europa, anche se ben remunerato, oggi mi annoierebbe. Non ho più voglia di partecipare ad allestimenti con tempi di preparazione molto lunghi, magari con registi che hanno idee che non vanno da nessuna parte. O che ripescano cose viste e riviste. Preferisco partecipare a produzioni più semplici, come quelle che si fanno in Spagna o in Germania, coprendo quei 4-5 ruoli che più amo fare. Meglio ancora se si tratta di riprese di spettacoli che già conosco, in cui provi abbastanza poco e poi fai le tue recite. Così alla fine posso avere più tempo per me.
So che tieni seguitissime masterclasses.
Si, soprattutto all'estero. Ma ci sono due masterclasses cui sono molto affezionato, e che mi stanno dando grandi soddisfazioni. La prima – semi ufficiale – è legata al Concorso "Toti Dal Monte" di Treviso: su incarico del Teatro Comunale, da qualche anno curo con i vincitori l'approfondimento interpretativo dell'opera messa in gara, prima che intraprendano il lavoro con il regista ed il direttore. Una replica in piccolo, se vogliamo, della mitica Bottega di Peter Maag. L'altra accademia lo tengo da otto anni a Wildbad in Germania al Festival Rossini, insieme a Raul Gimenez, coniugando per 10-12 giorni un po' di vacanza – il posto è molto bello - e l'impegno didattico. Anche qui si tratta di perfezionare alcuni giovani interpreti, già avviati in carriera, che si esibiranno a fine corso in due concerti. Un'occasione di farsi sentire dal direttore artistico e dai direttori d'orchestra presenti, i quali talvolta li chiamano ad esibirsi nello stesso festival l'anno successivo. O magari li scritturano altrove.
Stai pian piano intraprendendo una carriera da regista. Com'è arrivata questa seconda attività?
Quasi per caso, dopo alcuni timidi approcci di mise en espace sfociati in una Cenerentola data nel 2014 a Treviso e Ferrara. E poi nel Don Giovanni presentato all'Olimpico di Vicenza nel 2015. Però non ho smanie di regia, mi reputo un regista “in erba”, che lavora più per divertimento che per professione. Tutto quello che arriva è ben accetto, ma non vado alla ricerca di un nuovo mestiere. Comunque sinora i risultati mi hanno trovato sempre molto soddisfatto.
Come ti trovi, da cantante, con i registi d'oggi?
Il problema delle regie oggi è che ormai si sta consumando il filone del post-post-postmoderno, con un palese esaurimento di idee. Tante regie che si vedono in giro sono ormai centoni di trovate, di cose già viste, di idee ripetitive, scopiazzate dal cinema, dai cartoons, dalla pubblicità, con sketches ricavati dalla televisione. Cercando di dare loro una qualche patina di novità. Per questo preferisco cantare, come ho detto, in regie per così dire 'classiche'.
In effetti, all'ultimo Festival Verdi di Parma sia in Macbeth che in Attila - parliamo di due regie diverse - si vedeva quale trono una poltrona tipo Frau. Cambiava solo il colore.
E' molto difficile creare cose nuove tout court, lo so, ma come dici tu siamo arrivati ad un punto impensabile. Cioè che noi cantanti ritroviamo in palcoscenico la stessa attrezzeria da un teatro all'altro, da un'opera all'altra. Il pubblico, che comincia ad essere 'sgamato' e saturo di certe immagini, a questo punto non si scandalizza più se vede in scena una sedia a rotelle, un letto apribile, il lettino dello psicologo, una camicia di forza, le altalene, i palloncini colorati. Oppure le jeep, i mitra, i copricapi arabi, le cinture esplosive da kamikaze. E' un po' la moda del regietheater, che impazza in Germania. Ma anche altrove, purtroppo.
Talvolta ritagli per te, nelle tue regie, dei simpatici camei.
Sono camei molto discreti, a volte li inserisco come trait d'union tra le scene, come nelle Nozze di Figaro che ho fatto al Teatro Olimpico di Vicenza, in cui corteggiavo con molta ironia la Marcellina della bravissima Giovanna Donadini. Oppure magari per aiutare, stando direttamente in scena, un cast composto da interpreti alle prime armi, i quali hanno un po' bisogno di sostegno. Mai da solo in scena, perché i protagonisti devono restare solo i cantanti. E poi sono dell'idea che tutte le invenzioni di scena debbano sempre scaturire dalla pagina musicale, oltre che dai suggerimenti del libretto, e persino dalla precisa valutazione del cast che canterà. In questo sarei molto all'antica, anche se credo che oggi come oggi questa sia in fondo la forma più moderna di fare teatro.
C'è sempre molta leggerezza ed ironia in quello che fai. Come nella esilarante presa in giro degli eccessi del regietheater ne La cambiale di matrimonio, al Festival Rossini di Wildbad 2018, reperibile in DVD. Dove sei in scena come attore.
Ahimé, questo smentisce in parte quello che ho appena detto... però diciamo che lì faccio molta autoironia, prendendo in giro anche me stesso, in veste di regista. E' uno spettacolo il cui senso è giocare insieme ai giovani cantanti, ma senza prevaricarli. La mia è una presenza molto surreale, prima che comica, con le balordaggini di un arrogante regietheater che vuole portare in scena anche quello che nell'opera non esiste, inventandolo di sana pianta. E sempre presente, imponendo una presenza assurda ed ingombrante, una spada di Damocle che pende minacciosa ostacolando il lavoro dei cantanti. Una piccola farsa come La cambiale di matrimonio mi è sembrato il contesto ideale per proporre un contrasto spiritoso tra un Rossini giovanile e leggerissimo, e certe trovate cervellotiche e stupide. Tuttavia non siamo molto lontani da certe realtà, ben note ai frequentatori dei teatri.
Sei nato ed abiti da sempre a Venezia, nonostante i tuoi impegni ti portino in giro per il mondo. Che rapporto hai con la città?
Io adoro la mia città, e le sono molto legato anche se, in verità, ci sto molto poco. E cerco di essere un promulgatore della grande civiltà veneziana, oltre che un convinto paladino della canzone veneziana d'autore. Quella che dobbiamo non solo a Buzzolla e Rossini, ma anche a musicisti meno noti come Reynaldo Hahn, Simone Mayr o Guido Bianchini. Musiche che ho fissato in alcuni CD, e da sempre presenti nei miei concerti. Purtroppo - artisticamente parlando – non sono ricambiato dello stesso amore, ma pazienza.