«Cautamente vagliai la mia vita», scrisse in una poesia Emily Dickinson. Ispirando indirettamente “Lontano da qui”, ultimo lavoro di Fillippo Perocco in scena al Teatro Caio Melisso di Spoleto
Era davvero importante assistere, l'8 settembre al Teatro Caio Melisso di Spoleto, alla prima di Lontano da qui, ultimo lavoro teatrale di Filippo Perocco - vincitore del Premio Abbiati per l'opera Acquagranda che aprì la stagione 2016/17 della Fenice - composto sulla base drammaturgica ed i testi di Riccardo Fazi. Questa volta la commissione gli è venuta dal Teatro Lirico Sperimentale “A.Belli”, nell'ambito d'una coproduzione con I Teatri di Reggio Emilia, dove Lontano da qui approderà più avanti.
La campana: voce di Dio, voce di popolo
L'idea iniziale della partitura, come ha precisato il compositore veneziano, scaturisce dal suono dei campanili «che scandisce la vita in ogni luogo, legato fortemente al territorio e alle parti più intime di noi». In scena due soli personaggi, Madre e Figlia, colti nell'intimità domestica serale, mentre la Natura fa sentire la sua voce fuori campo, presenza/assenza vivissima. Il loro canto, fatto sopra tutto di spiraleggianti archi melodici, si alterna con parole che appaiono scritte sulla tela, frasi fatte di niente. Un evento traumatico le sorprende nel riposo notturno; il dialogo dei soccorritori, anch'esso proiettato in alto, suggerisce il crollo della loro casa. Non caso, il momento è definito “Fuori della caverna”, e non a caso l'opera è dedicata agli abitanti della Valnerina, devastata dal tragico sisma del settembre 1979. Nel secondo atto si succedono la scena di“Un mese dopo”, dove la Figlia entra a sistemare un'abitazione tutta a soqquadro, e poi momenti di rewind antecedenti il disastro. E dopo che le campane delle chiese di Norcia sono chiamate a far sentire il loro suono, tocca alla Natura restare accanto alla Figlia rimasta sola.
Una scrittura densa e commovente
La musica di Perocco non è facile, sin dall'inizio, perché la scrittura è densa, pregnante, minuziosa. Evocativa d'immagini, inclina spesso al calligrafismo sonoro inteso però “alla giapponese”: una grafia cioè dove ogni singolo ideogramma – qui, ogni singola frase musicale – assumono peculiari ed intense significanze. Il musicista sa prenderti per mano e procedere fascinosamente sfruttando sino in fondo le risorse vocali e strumentali a disposizione. Molto conta in questo certamente la vivida e meticolosa concertazione di Marco Angius – vero specialista della contemporaneità – a capo di una snella compagine che accorpa l'Ensamble strumentale del Teatro spoletino e l'Ensamble l'Arsenale, creatura dello stesso Perocco. Intense e bravissime interpreti vocali si dimostrano i soprani Livia Rado (Figlia) ed Emanuela Sgarlata (Natura), e il mezzosoprano Daniela Nineva (Madre). Se lo spettacolo avvince lo spettatore, stringendolo in una sorta di angosciante suspence, è grande merito della forte regia di Claudia Sarace, che procede con concentrata drammaticità, utilizzando sapientemente i video elaborati da Maria Elena Fusacchia.