di Nick Cassavetes
USA, 2006, Vip Mediendfonds 2/A-Mark Entertainment
Regia: Nick Cassavetes; Interpreti: Emile Hirsch, Justin Timberlake, Sharon Stone, Shawn Hatosy, Anton Yelchin, Ben Foster, Bruce Willis Sceneggiatura: Nick Cassavetes; Fotografia: Robert Fraisse; Montaggio: Alan Heim; Scenografia: Dominic Watkins; Musiche: Aaron Zigman
Durata: 2h e 02’
Johnny Truelove è uno spacciatore di droga di media importanza della San Gabriel Valley, che aspira a seguire le orme paterne. Per farsi rimborsare di un debito di droga Johnny e la sua banda rapiscono il fratello più giovane di Jake Mazursky. La situazione degenera e il padre di Johnny, Sonny, è costretto ad intervenire per evitare al figlio di finire in prigione. La vicenda si complica irrimediabilmente fino al verificarsi di un tragico crimine...
Frammenti di vita reale degli attori protagonisti del film, filmati con delle videocamere amatoriali per mano quasi certamente dei loro stessi genitori, nell’età dell’infanzia che è soprattutto l’età dell’innocenza e della spensieratezza, montati sulla voce di Eva Cassidy che canta “Over the rainbow”: così Nick Cassavetes decide di aprire il suo Alpha Dog, introducendo un forte elemento di riflessività e mettendoci di fronte ad un’operazione metalinguistica sofisticata con cui scorrono i titoli di testa. Ma dove veniamo catapultati non appena si concludono queste immagini e lo struggente canto che le accompagna? E soprattutto viene da chiedersi, è la realtà che è entrata nell’universo finzionale o è quest’ultimo che si è impadronito della realtà? Difficile a dirsi. Innanzitutto perché ci accorgiamo sin da subito che non c’è spazio per l’innocenza in questo pezzo d’America, non c’è redenzione in questo balletto di frustrazioni e noia, di adolescenti di buona famiglia che giocano a fare gli adulti, smaliziati, strafatti e ipertatuati, che aspirano ad avere lo stile di vita dei gangsta-rapper la cui musica accompagna incessantemente ogni loro azione, che credono di poter giocare con le vite umane come se stessero giocando a “Grand theft auto” alla Playstation, tra gigantografie del militarismo nazista e poster di Scarface attaccati alle pareti. In secondo luogo perché il film è la cronaca di una vicenda realmente accaduta ma più o meno romanzata, schietta rappresentazione di un avvenimento che ha scosso le coscienze, sovrapposizione di figure realmente implicate nella storia: Cassavetes afferma di aver sentito parlare del giovane omicida da sua figlia, che frequentava all’epoca il suo stesso liceo, e dopo aver letto gli atti del processo e gli appunti del procuratore – che ha anche collaborato in parte alla stesura della sceneggiatura visto che le sue annotazioni sono finite in mano alla produzione – si è definito che ne ha tratto il film. L’aspetto che più interessa il regista/sceneggiatore è infatti l’analisi di come possano essere accadute tali atrocità, come possano essere state concepite efferatezze simili nella testa di giovani apparentemente normali. Ma le sue ricerche non hanno sortito purtroppo i risultati sperati: non un dramma alle spalle che giustifichi la falla nel sistema famiglia, solo l’amara consapevolezza che genitori troppo impegnati e distratti possono diventare quasi degli estranei o comunque in grado di comunicare solo attraverso la paghetta, e che l’unica cosa che veramente non conoscono non sono le loro abitudini o le loro amicizie, ma i figli stessi. È quanto afferma all’inizio del film Sonny Truelove, il padre di Johnny (interpretato da un sempre in forma Bruce Willis) «Il punto di tutta questa storia è l’attenzione per i figli». Ed è quanto ribadisce lo stesso Cassavetes, «Spero che la gente esca dal cinema con la voglia di chiamare i propri figli…Io credo che se si amano i propri figli ci si senta coinvolti. Dobbiamo stargli vicino e passare più tempo con loro. Più la gente prenderà sul serio il mondo in cui viviamo, buono o cattivo che sia, più potere otteremo». In una delle sequenze chiave del film e di estremo interesse anche per le caratteristiche di messa in scena, assistiamo, a distanza di tempo dal terribile accaduto, a una sorta di seduta-confessione tra la madre di Zack, interpretata da una Sharon Stone irriconoscibile (imbruttita e ingrassata di venti chili per l’occasione) e un dottore all’interno di un ospedale psichiatrico. Sono quattro minuti di agonia per il personaggio, che ha ormai perso contatto con la realtà e che chiede conto a Dio del suo tormento, ma sono quattro minuti di agonia anche per lo spettatore, che si trova davanti alle espressioni deliranti e isteriche del volto della Stone. Il regista, infatti, ce la mostra quasi sempre in PP, in un modo che si avvicina di molto allo stile del padre, (John Cassavetes, mitico regista dell’avanguardia statunitense e pioniere del cinema indipendente), con quella Mdp nervosa e impegnata in movimenti scomposti, in stacchi improvvisi e piani-sequenza non calibrati, una Mdp che viene ad un certo punto anche vista, disvelando così il processo di costruzione del profilmico ed evidenziando, dopo la sequenza iniziale, un altro elemento metalinguistico. Tutto il film, poi, è girato alla maniera delle Crime Stories degli anni ’70, con tanto di split screen che sulla base di testimonianze e atti processuali, ricostruisce i fatti come un documentario e allo stesso tempo introduce delle licenze poetiche. Ed è proprio la struttura docu-fiction a rendere ancora più inquietante questa storia di ragazzini viziati e senza regole, eroi o forse vittime di una società allo sbando e che ci riporta alle domande iniziali. Nel tentativo di trovare una risposta a entrambe potremmo dire, in conclusione, che l’infanzia con i suoi giochi e gli arcobaleni è definitivamente perduta, è diventata parte della memoria di ciascuno di noi, un ricordo dorato che viene fuori nella sua purezza ogni qual volta rivediamo delle vecchie foto o dei vecchi filmati che ci ritraggono da piccoli, ma che purtroppo svanisce presto, come le note di Over the rainbow, non appena ci si scontra con la cruda realtà del quotidiano.
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