A meno di un anno dal precedente Jersey Boys, Clint Eastwood torna al cinema con un nuovo film in cui luci ed ombre ideologiche rischiano di mettere in secondo piano le parti migliori della pellicola.
Chris Kyle viene inviato in Iraq con una missione precisa: deve proteggere i suoi commilitoni durante le azioni di guerra. La sua massima precisione salva innumerevoli vite sui campi di battaglia tanto da guadagnarsi il soprannome di “Leggenda”. La sua reputazione però cresce anche dietro le linee nemiche e, in breve tempo, diviene lui stesso un bersaglio con tanto di taglia sulla propria testa. Nonostante il pericolo e l’altissimo prezzo che dovrà pagare la sua vita famigliare, rimane in Iraq quattro anni…
Tratto dall’ autobiografia del Navy Seal Chris Kyle (“American Sniper: The Autobiography of the Most Lethal Sniper in U.S. Military History") e passato dapprima dalle mani di Spielberg, ritiratosi poi dal progetto fortemente voluto da Bradley Cooper, American Sniper va ad aggiungere un tassello abbastanza problematico alla filmografia del vecchio Clint Eastwood. Problematico perché è innegabile che sia un film a tratti davvero ben fatto e con punte di pathos davvero gestite alla grande (la sequenza di apertura lasciata in sospeso e ripresa a metà film, l’ultimo assedio e la tempesta di sabbia), dove Eastwood sembra abbandonare la solita regia ”granitica” per lasciarsi andare a scene di azione che mai nel suo cinema si erano viste (e facendo sorgere in molti il lecito dubbio che non sia tutta farina del suo sacco). A controbilanciare il quasi sempre riuscito aspetto tecnico e narrativo della pellicola c’è però un “rumore di fondo” retorico e patriottardo estremamente fastidioso, forse più percepibile da quella parte di pubblico che ancora rifiuta l’ assuefazione a certi filo-americanismi che imperano ormai da decenni.
Intendiamoci, parlare bene o male di American Sniper non vuol dire incasellare a tutti i costi Eastwood a destra o a sinistra, gioco sterile ed annoso che la critica si diverte a fare – bontà sua - fin dai tempi dell’ Ispettore Callaghan, etichettando il regista di volta in volta “guerrafondaio”, “fascista”, “anarchico di destra”, etc. in base alle aspettative più o meno tradite; è che nel raccontare Chris Kyle, il “più letale cecchino nella storia militare degli Stati Uniti”, Clint non ci mette un grammo della tenerezza, della pietas o della tragedia umana solitamente presenti in quasi tutti i suoi beautiful losers. American Sniper finisce così per essere il ritratto di un personaggio con il quale difficilmente si riesce ad empatizzare, tanto risulta intriso dalla peggior retorica e superficialità made in USA, quella per intenderci che lo porta ad osservare il mondo da un punto di vista personale ritenuto giudizio e valore universale, che è poi ad ogni livello la visione “americana” delle cose.
Eastwood non arriva mai a condividere (nè a condannare, ed è forse questo il problema reale della pellicola) le scelte personali del protagonista che trova nella guerra e nello sfogo armato l’unico motivo di esistenza ed affermazione di identità, rifuggendo come “inutile alla causa” la tranquillità della vita famigliare. In uno Stato dove le armi circolano liberamente e un giorno sì e l’altro pure si spara in un centro commerciale o in una scuola, una presa di posizione un pochino più netta non sarebbe stata poi così fuori luogo, soprattutto da Eastwood che, nella maturità della sua carriera, non ha mancato di affrontare temi con una visione più ampia di quanto la sua appartenenza al partito repubblicano potesse far immaginare (vedi i suoi pareri non tipicamente “allineati a destra” sulla pena di morte in Fino a prova contraria e sull’ eutanasia in Million Dollar Baby).
Alla fine, un po’ come il suo protagonista, Clint Eastwood si limita a chiudere un occhio ed a vedere (e mostrare) la guerra soltanto attraverso un punto di vista univoco, perdendo o ignorandone volutamente la visione totale, che è un po’ il contrario di quanto fece qualche anno fa col dittico Flags Of Our Father /Letter From Iwo Jima. Quel che rimane è la sensazione che, anche per lui come per buona parte degli USA e delle sue “colonie”, il giusto stia sempre e solo con gli americani – “portatori sani di democrazia”, come li definì Gaber - e che la guerra sia in fondo tutta un (video)gioco a cui partecipare, magari con un teschio preso dal fumetto Marvel The Punisher disegnato sull’ antiproiettile, e da vedere rigorosamente a distanza così da evitare la responsabilità di capire quale macroscopica, dolorosa truffa possa essere.