Deve essere piaciuto a Raoul Bova il mestiere di co-produttore se ha già trovato il soggetto per un secondo esperimento. Si tratta della vicenda vera di Derek Rocco Barbabei un giovane americano di origini italiane condannato a morte in Virginia per stupro e assassinio: oggi sembrerebbe innocente perché la prova del Dna sarebbe stata manipolata. I produttori americani ci sono già, la distribuzione dovrebbe essere della Century Fox, mancano quelli italiani e manca il regista. Si cerca un nome grosso: Muccino, forse, oppure Tornatore.
Un altro film di impegno sociale, dunque, a cui Bova intende collaborare offrendo la sua partecipazione a percentuale sugli eventuali guadagni perché, spiega: «E’ finito il tempo in cui un attore poteva starsene sul divano in attesa che gli arrivasse un buon copione. Oggi, in Italia, devi farti parte attiva nella realizzazione di un film, altrimenti ti offrono sempre lo stesso ruolo e non riesci a migliorarti. Io questa strada ho cominciato a percorrerla: mi piacerebbe che qualcun altro la seguisse».
Il primo film voluto da Raoul Bova è Io, l’altro del tunisimo Moschen Melliti, giornalista e ricercatore esperto di diritti umani nei paesi arabi, al suo debutto nel cinema. Prodotto da Bova con l’aiuto di Santarelli, distribuito dalla Century Fox con Sky, sarà nelle sale in 50 copie, a partire dal 18 maggio per un percorso commercialmente non facile. Tema forte, quello al centro di questo apologo. Due pescatori, Giuseppe e Yousef, uno italiano l’altro tunisino, mentre sono sulla loro barca, vengono raggiunti via radio dalla notizia di un attentato con molti morti in Spagna e il terrorista ricercato, lo sente Giuseppe nel Gr, è proprio Yousef. Paura, sospetto, dubbi, tensioni, fraintendimenti porteranno i due amici alla tragedia.
Recitato benissimo, soprattutto da Bova che fa di questo marinaio un personaggio teso e disperato, il film ha le caratteristiche di un’opera teatrale: dalla barca Medea, un nome che è un presagio, i due non scendono mai per gli ottanta minuti della storia. Bova, che aspetta la programmazione negli Stati Uniti del seriale The Company, che ha voluto fare perché il produttore è Ridley Scott, e successivamente, in autunno, l’uscita di Milano-Palermo di Fragasso, sostiene di aver deciso, appena letto il copione, di collaborare alla riuscita di Io, l’altro. «E’ capitato anche a me in un aeroporto, per una valigia abbandonata e la presenza di un arabo tra i passeggeri, di provare timore e vergogna per il mio stato d’animo. Non si può vivere sospettando milioni di cittadini che vengono dai paesi di religione musulmana di essere tutti terroristi. Va riconosciuto, comunque, che dopo l’attentato dell’11 settembre il nostro sguardo su di loro è cambiato. E negli Stati Uniti è peggio».
In che senso? «Noi abbiamo giornali e tv che ci spiegano cosa succede in Iraq o in Afghanistan. In America le televisioni inondano il paese di immagini di guerra incitando la gente a un patriottismo pericoloso. Anche la campagna per invitare i volontari ad arruolarsi nell’esercito ha toni enfatici che preoccupano. Ho visto un videogioco in cui i bambini venivano invitati a sparare non contro gli alieni ma contro gli arabi. Tutto questo non mi piace e non mi rassicura». Si è sviluppata nel mondo occidentale una cultura del sospetto? «A me pare di sì. So che l’integrazione è un processo lungo e difficile, che l’immigrazione per noi è un fenomeno recente e di grandi proporzioni. Ma mi pare che questo modo spaventato di guardare agli arabi somiglia a quello con cui noi italiani venivamo visti in America fino a non molti anni fa. E’ vero che la mafia aveva messo radici negli Stati Uniti, ma non tutti gli emigranti italiani erano mafiosi. Non posso dimenticarmi Sacco e Vanzetti».
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