Esistono i fatti o le interpretazioni? È questo interrogativo che divide al momento i filosofi postmoderni e neorealisti. Non è così semplice come appare. Le foto storiche sono spesso servite come testimonianza di fatti che in realtà non erano avvenuti per come venivano ritratti e poi narrati. Fatti ad hoc che aiutavano la verità di un regime o di uno schieramento a farsi più vera o più realisticamente menzognera. Altre foto hanno disvelato gli eventi portando a nuove interpretazioni. I fotoreporter Ennio Iacobucci, Nick Út e Ronald L. Haeberle hanno permesso che la storia venisse riscritta o semplicemente conosciuta nella sua prospettiva più vera; hanno permesso che la verità dei fatti venisse dichiarata falsa grazie all’interpretazione degli eventi a cui le loro foto hanno dato luogo.
Il 17 aprile 1975 i Khmer rossi entrarono a Phnom Penh. Era l’inizio della dittatura comunista di Pol Pot in Cambogia, denominata dai comunisti Kampuchea Democratica, che avrebbe portato al massacro di più di un milione e mezzo di persone, un terzo della popolazione cambogiana, e che avrebbe avuto termine nel 1979, grazie all’intervento dei vietnamiti. L’unica foto che abbiamo dell’entrata dei Khmer rossi nella capitale cambogiana è di Ennio Iacobucci, un fotogiornalista freelance che lavorava anche per il New York Times. Iacobucci era di origini abruzzesi. Nato nel 1940 e morto suicida nel 1977.
Questo fotogiornalista italiano è però noto per le sue immagini sulla Guerra del Vietnam che insieme con quelle di Nick Út e Ronald L. Haeberle ci restituiscono una prospettiva grandangolare della guerra (1960-1975). Gli Stati Uniti d’America ne escono devastati, sia per il coinvolgimento diretto nella guerra sia per il sostegno indirettamente concesso alla Kampuchea Democratica e dunque a uno dei criminali più feroci del XX secolo: Pol Pot e i suoi sodali. Iacobucci riprende la Guerra del Vietnam dal 1968 in poi. Non racconta soltanto la vita dei soldati, ma anche la disperazione, la morte, l’infanzia svilita, rubata, defraudata, mutilata, abbandonata, imprigionata. E poi, nel 1970, la penetrazione in Cambogia delle truppe americane, dopo il colpo di Stato del generale Lol Nol. Il 1972 è l’anno della svolta nella carriera di Iacobucci. È presente quando gli americani e i sudvietnamiti vengono sconfitti e quando le truppe del Fronte nazionale di liberazione entrano vittoriose a Quangtri. Iacobucci è lì, unico corrispondente straniero ad assistere alle operazioni. Telefona alla France Presse per informare dell’accaduto e in breve la notizia fa il giro del mondo. Lo scoop non piace né agli americani né ai sudvietnamiti che cercano di uccidere il fotoreporter che si dà alla fuga.
Nel 1975, a trentacinque anni, torna a Roma, dove stenta a riprendere la normale attività di fotografo. Schiacciato dalla routine quotidiana, assillato da problemi di stabilità mentale, si impicca nella cantina della sua casa nel 1977. "A Saigon - spiega Morelli - aveva trovato quello che nella sua vita non aveva mai avuto: il rispetto, l'ammirazione, il successo, l'amore, tutto quello che cercava. In Italia, a Roma tutto questo non c'era. Era uno sconosciuto, un emarginato. Quello dei fotografi italiani era un mondo spietato ed impenetrabile, lui non riuscì a rientrare nei canoni della vita comune: un quartiere periferico, una esistenza noiosa e di routine per molti va bene, ma lui voleva vivere in maniera diversa" (Chiara Brusagallina, Vietnam, fotoracconto della tragedia gli scatti "dimenticati" di Iacobucci, in “La Repubblica”, 23 giugno 2008).
Ci si dimenticò presto di Iacobucci perché intanto un’altra foto faceva il giro del mondo: quella del fotografo vietnamita Nick Út. Fu scattata l’8 giugno 1972 quando un ufficiale americano diede ordine alle forze aeree dei sudvietnamiti di sferrare un attacco sul villaggio di Trang Bang nel Vietnam del sud con un bombardamento al napalm. L’acido uccise nell’immediato quattro persone. Mentre la popolazione fuggiva, Nick Út riprese una bambina di nove anni, Kim Phúc. Kim, gravemente ustionata, correva nuda, urlando con le braccia aperte per sfuggire al mostro silenzioso che bruciava il corpo senza farsi vedere.
L’urlo della celebre foto sembra tradursi in suono per un effetto amplificante reso da un altro bambino, in primo piano sull’angolo sinistro, che ha la bocca spalancata in una smorfia di terrore. Nick Út vinse il premio Pulitzer, peraltro la foto fu scelta nello stesso anno come World Press Photo of the Year. L’immagine di Kim Phúc che corre urlante e terrorizzata è ormai nell’immaginario collettivo il simbolo della Guerra del Vietnam, della sua follia, delle sue atrocità. E forse il vertice era stato toccato qualche anno prima, nel 1968.
Si aspettò il 1971 per vedere condannato all’ergastolo l’ufficiale William Calley, comandante della Compagnia Charlie, che si macchiò di atrocità inenarrabili, ordinando la strage contro la popolazione civile di Sơn Mỹ (Song My), cittadina ritenuta roccaforte dei guerriglieri vietcong. L’attacco avvenne il 16 marzo 1968, precisamente a Mỹ Lai uno dei borghi del villaggio di Sơn Mỹ. Il plotone uccise donne, bambini, anziani con una ferocia inaudita, massacrando sino all’orrore ineffabile. I civili venivano radunati anche a centinaia e uccisi con la mitragliatrice, le donne furono spesso stuprate. Furono massacrate 504 persone tra Mỹ Lai e Mỹ Khe secondo il governo vietnamita, ma gli USA ne riconobbero 347. Calley certamente fu un capro espiatorio perché di sicuro non agì da solo. Comunque fu liberato nel 1974 poiché già il giorno dopo la condanna era arrivato l’atto di clemenza di Nixon. Come si seppe della strage? Grazie a una lettera accusatoria di un soldato e alle immagini di Ronald L. Haeberle, che vennero pubblicate per la prima volta il 20 novembre 1969 dalla rivista The Plain Dealer e il 1° dicembre da Life. Haeberle era il fotografo ufficiale dell’esercito statunitense e aveva l’obbligo di riprendere e far circolare soltanto le immagini che passavano la censura. Il fotografo però aveva anche una sua macchina con cui scattò molte foto che divennero icona delle atrocità degli americani in Vietnam. Celebre è l’immagine di una famiglia, radunata in un angolo. I volti terrorizzati dei bambini e delle donne. Così recita la didascalia: March 16, 1968, “Women and children in My Lai, Vietnam, shortly before US soldiers shot and killed them”. Qualche secondo dopo lo scatto tutte le persone della foto, bambini compresi, verranno uccise.
More significantly, they showed that the dead were primarily women and children, including infants. These photographs exposed the fact that the "insurgents" in popular discourse about Vietnam were actually unarmed civilians. The photos made visible to viewers that the "enemy" in Vietnam was actually the indigenous Vietnamese population. The U.S. military convicted only one soldier for the massacre at My Lai, and then paroled him after three years, demonstrating that the violence that Haeberle's photographs documented was not an anomaly. The war in Vietnam was (un)officially a war waged against a civilian population (Camilla Griggers , Visualizing War, in “Poetics/Politics: Radical Aesthetics for the Classroom” Amitava Kumar (edited by), New York 1999, pp. 220-221).