Il regista inglese Stephen Frears porta sullo schermo la storia di Florence Foster Jenkins, la donna più stonata del mondo, e lo fa con una pellicola discontinua al servizio di Meryl Streep e Hugh Grant.
Tratto da una storia vera.
Quante volte questa frase ha fatto da introduzione a pellicole di varia (e a volte peggior) specie?
Stephen Frears lo sa bene, visto che buona parte della propria filmografia, soprattutto quella degli ultimi dieci anni, è composta da storie vere. Florence, ultima fatica del regista inglese, si inserisce esattamente in questo filone raccontando la vita di Florence Foster Jenkins (Meryl Streep), ricca ereditiera e mecenate del bel canto nella New York anni '40. Da Arturo Toscanini a Cole Porter, tutta l'alta società melomane le rende omaggio – spesso per interesse economico - quale interprete lirica raffinatissima. C'è un solo problema: Florence è stonata come un cane. Totalmente inascoltabile. A proteggerla da questa verità il marito Hugh Grant che, per accontentare la moglie – tra l'altro malata di sifilide – la spalleggia nella sua convinzione di essere una grande cantante fino ad organizzarle, con l'aiuto del giovane pianista Cosmè McMoon anch'esso “votato alla causa” di Florence, un grande concerto alla Carnegie Hall.
Una storia già vista al cinema.
Una storia non nuovissima, questa: nel 2015 infatti il regista Xavier Giannoli portò sullo schermo, con risultati nettamente migliori, Marguerite, ispirato alla vita di Florence Jenkins. Stephen Frears invece confeziona una commedia dalle potenzialità smorzate, tutta ad esclusivo servizio di una comunque ottima Meryl Streep - costretta a stonare per buona parte del film - e di un iperattivo e scatenato Hugh Grant. Nota di merito anche per Simon Helberg nei panni dell'imbarazzatissimo Cosmè McMoon, irresistibile aspirante compositore e pianista costretto all'impassibilità di fronte ai sinistri ululati della presunta cantante lirica.
“Ogni voce merita di essere ascoltata”(?)
Mai come ora, in pieno dominio social, la legittimità di questa affermazione - presa direttamente dalla tagline italiana del film - potrebbe essere l'inizio di infinite disquisizioni (Umberto Eco docet), ma ci limiteremo alla pellicola in questione: la voce di Florence aveva il merito di essere ascoltata? Secondo Stephen Frears sì. E non solo ascoltata, anche “beatificata” in quanto genuina e forse, chissà, anche ingenua. E' questo assunto di fondo che però, alla fine, infastidisce: per Frears sono sufficienti la genuinità e l'ingenuità (se mai davvero Florence possa essere stata così ingenua da ritenersi una grande cantante) a far passare per buone le peggiori schifezze.
"La gente può anche dire che non so cantare, ma nessuno potrà mai dire che non ho cantato."
L'accanimento con cui Frears continua a mettere in mostra le esibizioni di questa “Callas al contrario” col solo intento di agganciare empaticamente lo spettatore a lungo andare stanca e vi si assiste non più con il moderato e curioso divertimento iniziale, ma quasi con fastidio.
Il regista sceglie poi di mantenere il cinismo sottotraccia, lasciando allo spettatore la scelta se vedere l'ambiguo rapporto tra l'inesistente talento di Florence e le folle borghesi plaudenti ed i critici musicali “corrotti”, oppure se accontentarsi della “solita” commedia agrodolce, rassicurante nel suo svolgersi e dalle molte promesse poi non mantenute, sorretta da un cast di ottimi attori. Film che Stephen Frears ha comunque già fatto altre volte con esiti ben superiori.
Perchè vederlo? Nelle pellicole anni '30 gli attori venivano definiti “players”. Ecco: qui, più che in molte altre pellicole, Meryl Streep e Hugh Grant si divertono a fare i “giocatori” ed è bello goderseli anche così.
Perchè non vederlo? Per la sensazione di occasione mancata e per il continuo insistere sulla incapacità canora della protagonista: ok, è il tema del film, ma il sorriso alla prima (lunga) esibizione stonata della Streep si trasforma in noia alla quinta riproposizione.