New York, Central Park. Siamo in pieno giorno. La vita dei newyorkesi scorre tra la routine del traffico e piccoli momenti di relax che qualcuno si concede sulle panchine. Di colpo il cielo s’incupisce, l’aria si fa immobile e irreale. Poi un vento attraversa i palazzi e le persone, e queste ultime di colpo si bloccano come paralizzate, balbettano qualcosa, camminano all’indietro per un po’, per poi cercare il più veloce metodo per togliersi la vita. Nel giro di pochi fotogrammi la tranquillità del quotidiano muta nell’assurdo di una inspiegabile tragedia. Le tinte si fanno fosche, fredde, inquietanti. Il mondo degli uomini è rovesciato come un guanto da qualcosa di impercettibile, che piomba all’improvviso sopra le loro teste, impalpabile come l’aria, imprevedibile come ogni evento (The happening, l’evento, è appunto il titolo originale). La morte penetra negli uomini attraverso un atto della loro narcotizzata volontà.
Questo è lo scenario tremendo e fantastico che M. Night Shyamalan riserva ai suoi spettatori dopo la buona riuscita dei suoi lavori precedenti, tra cui da menzionare sono Signs, The unbreackble e Il sesto senso. Nessuno sa darsi una spiegazione, l’orrore avvolge gli uomini in tutta la sua insensatezza. Si cercano possibili cause nel terrorismo internazionale o in una cospirazione governativa. Niente di tutto questo. A cercare di dare un po’ di ordine logico agli avvenimenti, al fine di trovare una spiegazione possibile, è chiamato un professore di scienze naturali (Mark Wahlberg) che, in fuga da Philadelphia, viene bloccato nel nulla della campagna americana con la sua compagna (Zooey Deschanel), una bambina, e tutti i passeggeri del treno che li ospitava. Di qui cominceranno un lungo peregrinare in fuga dalla morte, fino a scoprire la causa dell’evento: è la natura stessa che decide di ribellarsi all’uomo sviluppando, attraverso le piante, una micidiale tossina in grado di narcotizzare gli individui fino ad annullare il loro istinto di sopravvivenza.
Quella del regista è un’idea che non può che accattivare, politicamente schierata contro chi del potere economico fa la sola ragione di vita a discapito di qualunque altra forma di vita, tant’è da far scoppiare l’epidemia nel cuore della finanza mondiale. Di questa scelta ne pagherà un po’ il rigore logico del film (se la tossina si sviluppa nei centri più densamente popolati altre locazioni avrebbero meritato il triste primato), e con la stessa moneta pagherà la scelta di voler fare una versione fantastica del documentario di Al Gore. Un po’ macchinosi i dialoghi tra i protagonisti. In compenso è più acuta l’indagine antropologica, dove l’uomo torna ad essere, salvo rarissimi casi, lupo per gli altri uomini, minaccia per i suoi simili, con la stessa profondità e inquietudine de Il tempo dei lupi di Micheal Haneke.
La solitudine dei protagonisti è espressa magnificamente dall’incombere della natura, quanto mai matrigna, sulle loro vite. Esemplare il modo in cui viene reso il movimento delle foglie degli alberi e dei campi mossi dal vento. Alla poeticità che generalmente si associa a queste immagini si sostituisce, con un atto magistrale della macchina da presa, la paura e la minaccia della morte che esse paventano. L’effetto è reso ancora più potente dagli archi della colonna, composta ancora una volta da James Newton Howard.
Soli tra gli uomini e ricacciati da una natura che si fa incommensurabilmente ostile, i protagonisti troveranno una momentanea salvezza attraverso un percorso interiore che farà riscoprire loro la profondità del più autentico sentimento umano, dell’amore che li legherà profondamente. Una salvezza momentanea, si diceva; questo perché M. Night Shyamalan ci riserva un finale per nulla scontato, che sicuramente, nei limiti del fantastico, non può che indurci a riflettere.
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