L'apertura di questa seconda edizione del Gender Docufilm Fest è stata affidata a due documentari impegnativi e stimolanti.
PYUUPIRU 2001-2008 (Giappone, 2010) di Daishi Matsunaga
Daishi Matsunaga, amico d'infanzia dell'artista Pyuupirui, lo ha seguito da vicino per sette anni riprendendone con una telecamera vicissitudini artistiche e personali. Incapace di governare la sua materia documentale Daishi Matsunaga si limita a riprenderne l'esteriorità quella dei momenti pubblici (l'esibizione di Pyuupiru, alla triennale di Yokohama), e quella dei momenti privati, quando Pyuupiru si innamora di un ragazzo etero che chiama Papi. Queste due coordinate sono intrecciate dai percorsi dell'artista, l'invenzione dei suoi costumi fatti a maglia, il make-up che adotta per i suoi personaggi, etc.
Matsunaga indugia troppo su alcuni elementi della vita di Pyuupiru (la costruzione di 50 mila e più origami a forma di gru) a discapito di altri momenti che avrebbero meritato un maggiore approfondimento dimostrandosi del tutto impreparato nell'approfondire le dichiarazioni che Pyuupiru gli regala di tanto in tanto quando parla con lui guardando direttamente in camera.
Definito dai parenti e dagli amici gay Pyuupiro si confessa incapace di gestire una relazione con un ragazzo, anche se la desidererebbe. Incapace in quanto ragazzo al quale piacciono i ragazzi Pyuupiru si dedica così alla sua arte, alla costruzione di personaggi che contribuiscono piuttosto che alla ricerca di via alternativa all'identità di genere un modo per dissimulare la sua incapacità di gestire il proprio omoerotismo. Non a caso Pyuupiru si innamora un ragazzo etero che non accetta mai nemmeno di baciarlo e per il quale fantastica di possedere un corpo femminile, con grosse tette e una vagina al posto del pene secondo il doppio cliché maschilista che vuole 1) che un uomo che è attratto dagli uomini sia un po' femmina e 2) che il corpo femminile sia il viatico principale dell'attrazione sessuale di un maschio.
Prima ancora di essere una persona alla ricerca di una identità sessuale che lo definisca, Pyuupiru vaga così negli interstizi dei cliché di genere, arrivando a castrarsi (asportazione chimica dei testicoli ma non del pene) come primo passo di avvicinamento al corpo femminile cui pensa di approdare non per cercare una consona identità di genere ma per avvicinarsi a quel corpo che Pyuupiru creda piaccia a Papi. Ovviamente Papi appena appreso dell'operazione, non ne vuole più sapere di lui.
E - come all'inizio della sua carriera - Pyuupiru trova nell'arte la sua salvezza e fa del proprio corpo la sua opera d'arte, la creta su cui modellare una trasformazione che vale di per sé e non per la meta di destinazione.
Purtroppo nonostante i suoi lunghissimi e interminabili 95 minuti il documentario ci abbandona proprio quando l'artista comincia a fare del suo corpo la sua tela, modificando palpebre, mento e labbra (rendendole carnose come quelle dei neri).
Pyuupiru 2001-2008 è una promessa mancata, un documentario che mostra l'enorme potenzialità del soggetto ritratto, l'artista Pyuppiru, privo però degli strumenti culturali e artistici per poter restituire anche l'ombra dello spessore di una persona unica nel suo genere che sembra aver trovato nell'arte quella capacità di essere se stesso come non è riuscito a fare nel mondo che lo circonda.
The Table With The Dogs (Kathakali) (India, 2010) di Cédric Martinelli e Julien Touati
Le immagini ci catapultano subito in un ambiente estraneo all'occhio occidentale dove un gruppo di giovani e giovanissimi indiani sono sottoposti alla dura disciplina della danza KATHAKALI.
L'occhio dei due registi non è però un occhio antropologico. La danza Kathakali è per loro occasione di una operazione estetizzante. I corpi dei danzatori, tutti giovani e tonici, di diverse età, sono indagati, esplorati, ripresi e mostrati nella loro purezza di corpi in movimento che si sottopongono a uno sforzo atletico-coreutico-performativo non indifferente del quale però non ci viene restituita né l'energia, né la passione, né la forza nè la sacralità con cui questi uomini si preparano per uno spettacolo nel quale interpretano delle coloratissime e truccatissime divinità del Mahabharatha e dal Ramayana, divinità maschili e femminili che - proprio come nel teatro elisabettiano, sono interpretate esclusivamente da uomini e che solo un occhio naif può leggere in chiave omoerotica o di messa in discussione dell'identità di genere.
Anzi a uno sguardo anche solo timidamente femminista questi uomini che interpretano anche personaggi femminili non possono non essere visti come espressione di una cultura maschiocentrica che esclude le donne dalla rappresentanza anche del proprio genere.
Nulla ci viene detto di questi uomini che non sono persone e nemmeno personaggi ma figure senza una propria storia né personalità ripresi e mostrati secondo gli standard di un puro gusto esotico di ottocentesca fattura.
Un documentario il cui unico valore è quello della ricerca visiva alla quale si deve riconoscere una certa efficacia e un discreto fascino e che rappresenta al contempo un'occasione mancata per documentare le procedure la cultura e la storia di una antichissima disciplina di teatro-danza in una delle sue rare occasioni in cui si mostra all'occhio occidentale che rimane in superficie senza approfondire mai nulla nemmeno il momento dello spettacolo del quale ci vengono mostrati (forse per accordi con la scuola) solo pochissimi minuti.