La macchina da presa allarga gradualmente l’immagine di una figura ricurva su di un tavolo da lavoro, e il nero dell’assenza di luce lascia posto al grigio, solo un po’ meno nero, del protagonista e delle sue vicende. È la prima immagine del film che Paolo Sorrentino dedica alla «straordinaria vita di Giulio Andreotti», coadiuvata nell’effetto dalla puntuale fotografia di Luca Bigazzi.
Inaugurare questa rubrica con la recensione de “Il Divo” vorrebbe avere l’ambiziosa pretesa di essere un manifesto di ciò che la rubrica stessa vuole essere. Nei film biografici infatti la potenza narrativa dell’immagine filmica è messa a servizio del racconto di una vita, e quando la fissità della prima si rapporta all’insondabile densità della seconda non può che farlo senza pretendere chiarezza o esaustività.
Il merito del lavoro di Sorrentino è esattamente questo, cioè quello di raccontare una storia senza manifeste intenzioni critiche, senza indugiare in facili accuse o altrettanto facili giudizi -che, mutatis mutandis, la storia giudiziaria degli ultimi decenni ha dimostrato tutt’altro che facili.
Farlo sarebbe stata una soluzione di comodo, troppo semplice trattandosi di un personaggio che del suo grigiore ha fatto un punto di forza e che attira da decenni l’acredine dell’opinione pubblica italiana.
Ma Sorrentino preferisce raccontare una storia, a tratti favolistica, servendosi esemplarmente di tutti quegli elementi che avrebbero contribuito a farne un quadro ben riuscito, senza far perdere al suo lavoro credibilità e, a tratti, di veridicità.
Della fotografia si è già accennato, ma altrettanto fondamentale è quello straordinario attore che si cela dietro la maschera di Andreotti, quel Tony Servillo col quale Sorrentino ha stretto un mirabilissimo sodalizio. Della simbolicità della prima scena si è già detto, ma ora aggiungiamo che la stessa si interrompe con l’elettro-clash dei Cassius, irruzione di grande effetto che farà da sottofondo ad una serie di cruenti omicidi politici made in Italy.Godibile quindi anche la colonna sonora che, tranne piacevolissime eccezioni come questa dei Cassius, porta la firma dell’ottimo Teho Teardo.
Verità in pillole quindi, che si è detto manifestarsi a tratti e che si può cogliere nell’ironia del divo Giulio, come nella sfilata del potere nelle feste o nelle visite ufficiali dei loschi personaggi di cui Andreotti si è costellato.
Verità in pillole che tuttavia lascieranno l’amaro in bocca a quanti hanno ancora la bocca addolcita dal peccato di gola dei buoni sentimenti “per forza”: l’assenza del caso e la necessità degli eventi hanno dietro una matrice maligna, provvidenziale e sconcertante.
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