Annarita Curcio è una studiosa di fotografia. In questo testo riflette sulla potenza dell’immagine analizzando i suoi effetti quando al soldo del potere si fa veicolo «per la costruzione del consenso di una nazione» (p. 33). Ripercorre la storia del bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki e la successiva adulterazione della verità sulle conseguenze apocalittiche dell’attacco attraverso il sequestro di filmati e immagini sconvenienti, la contestazione delle testimonianze dirette di reporter o di sopravvissuti, ma soprattutto con l’uso di un giornalismo “mercenario”. Sebbene la prima legge della Costituzione americana enunci l’importanza della libertà di stampa evidenziando l’impegno a tutelarla, l’arruolamento dei media e l’uso della «fotografia come documento a sostegno della propria tesi» (p. 48) è divenuto una pratica abituale, definita oggi embedding, sino al punto da essere regolamentata nel 2003, «poche settimane prima dell’inizio della seconda guerra in Iraq» (p. 49).
Una tale manipolazione mediatica si fa seriamente problematica proprio nel caso delle fotografie e del loro naturale potere persuasivo sulle masse. La Curcio si sofferma anche sul valore della didascalia che oggi è uno degli snodi più importanti del dibattito sul fotografico. Ricorda che il più importante imperativo della rivista Life riguardava proprio il rapporto tra foto e testo: «Le parole al servizio delle immagini e non viceversa» (p. 45). Didascalie e testo dovevano avere soltanto una funzione strumentale, lasciando illeso e non soggetto al relativismo di giornalisti o storici il contenuto di veridicità dell’immagine, ma al massimo emendando la «presunta arbitrarietà della fotografia» (p. 31). Spesso però la scrittura aveva –e ha- la funzione di indirizzare la decodifica e potenziarne gli effetti persuasivi della foto, con la notevole differenza che mentre il testo tende a essere dimenticato, l’immagine non soltanto agisce come uno scalpello nella nostra memoria ma è considerata riproduzione del reale e dunque vera, benché oggi sia noto che la presunta fedeltà ai fatti non è aprioristicamente garantita. Spesso peraltro supera se stessa e la propria capacità contenutistica in quanto acquisisce una funzione simbolica e metonimica -«nella misura in cui sta per qualcosa di più grande, assumendo, pertanto, un significato universale (p. 38)»- che la fa assurgere a icona secolare, come nel caso della fotografia del fungo atomico di Hiroshima di George R. Caron o quella di Joe Rosenthal, The rising flag on Iwo Jima, del febbraio del 1945. La prima fece il giro del mondo e anziché produrre orrore divenne il manifesto del livello tecnologico raggiunto dagli Stati Uniti: «L’icona della bomba divenne, allora, per la sua capacità di “coprire” più che di mostrare, non già il simbolo di un crimine dell’uomo sull’uomo, bensì l’emblema della democrazia vittoriosa contro i fascismi, nonché il vessillo di un’egemonia tecnologica e militare» (p. 24). Nella foto di Rosenthal, cinque marine e un marinaio appaiono nell’atto di issare la bandiera degli Stati Uniti sulla vetta del monte Suribachi a Iwo Jima dopo la vittoria. Oggi è noto che quella fotografia fu «il risultato di una messa in scena. La foto venne pensata a tavolino dal dipartimento militare e assurta a simbolo della vittoria, diventò il perno di una massiccia campagna di propaganda» (p. 56).
La funzione iconica di certe fotografie può essere dunque manipolata non soltanto attraverso una strumentalizzazione della decodifica ma anche indirizzando l’attenzione del pubblico verso una lettura dell’evento, di cui l’immagine si fa portavoce, e di conseguenza oscurando deliberatamente ulteriori interpretazioni o la curiosità verso altre immagini. Sebbene la Curcio accolga la tesi di Victor Burgin, secondo il quale la foto ha un significato storico e contingente e non eterno e inamovibile, aggiunge che quelle foto «nell’immediato, però, servirono il loro paese egregiamente, plasmate dalle mani invisibili del potere» (p. 57). Quando si cominciò a dire la verità sugli effetti del bombardamento atomico e il pubblico poté avere accesso a immagini e filmati precedentemente sequestrati, il significato delle foto cambiò e a quelle icone secolari se ne aggiunse un’altra: la fotografia di Sadako Sasaki, scattata dal suo maestro Nomura. Sadako era una bambina sopravvissuta all’esplosione ma morta nel 1955 per gli effetti delle radiazioni che le provocarono la leucemia. Riprendendo il suo biografo Masamoto Nasu, la Curcio ritiene che quella fotografia sia assurta a icona secolare per il coraggio con cui Sadako affrontò la malattia che ne diede la misura del carisma, ma anche -se non soprattutto- per la sua morte da martire: «Il carisma e il martirio sono i due attributi fondamentali che consegnano un personaggio storico al rango di icona» (p. 82). All’indifferenza o addirittura ostilità verso gli hibakusha, i sopravvissuti al bombardamento, seguì grazie anche alla foto di Sadako un’attenzione maggiore che produsse come effetto la volontà di disvelamento del vero volto dell’attacco nucleare. Già nel 1947 le autorità locali si erano opposte alla distruzione di quel che rimaneva dell’unico edificio inspiegabilmente rimasto in piedi nell’area dell’epicentro: il Gembaku Dome, «un patrimonio irrinunciabile e universale da porre sotto tutela», da sottrarre «all’incuria del tempo, alle regole del commercio e semmai “esposto” come exemplum alla riflessione di tutti» (p. 87). Eppure proprio la fotografia che doveva aiutare nell’esercizio della «nobile arte del ricordo» (p. 78) divenendo appannaggio di tutti ha prodotto un effetto secondario:
«Dimentico dell’arte raffinata della contemplazione silenziosa che si impone davanti a certi monumenti, il turista con la mania di fotografare si profonde in una laboriosa ricerca di immagini. Finisce così col viaggiare senza vedere, col non guardare ciò che fotografa» (p. 89).
La frenesia di fermare il ricordo fotografando produce nel turista sprovveduto una reificazione dei monumenti e della loro capacità rammemorante. A questo effetto secondario della democratizzazione della fotografia, nient’affatto marginale, è da aggiungere la diffusione di «una koiné culturale anglo-americana» che ha soppiantato la cultura giapponese provocando un’«indifferenza generalizzata, malgrado la vivace attività dei movimenti pacifisti e antinucleari e l’opera di sensibilizzazione di scrittori», riscontrabile nei giovani giapponesi, anche studenti universitari, i quali «mostrano scarso interesse per la loro storia nazionale, vivendo fuori dal flusso della memoria collettiva» (p. 112).
Gli spunti di riflessione che il testo della Curcio offre, suffragati da un’ampia bibliografia e da analisi eziologico-storiche, sono molti di più. Non soltanto il testo è ben scritto -ha una forza narrativa che "obbliga" il lettore ad andare avanti senza fermarsi- ma assolve anche una funzione "politica" importante, che si innesta nell'esigenza disvelante di una riflessione matura sulla potenza dell’immagine e sull’uso della fotografia, che trova i suoi antecedenti in Barthes o nella Sontag. Immediato è anche il richiamo al testo di Vilem Flusser, Per una filosofia della fotografia (1983), in cui l’autore mette in guardia dagli apparati distributivi che codificano a priori il significato della foto, dalla possibile soppressione della facoltà critica dell’osservatore, dalla svalutazione della cosa. A differenza di Flusser, però, la Curcio usa un linguaggio più divulgativo pur se scientifico, un esempio universale e tragicamente noto, una maggiore attenzione allo stato dell’arte dell’uso del fotografico. Il suo intento peraltro non è quello di individuare –come è in Flusser- una dialettica progressiva e involvente nella storia dell’umanità che giunga fino alle immagini tecniche, ma destare la coscienza critica dell’osservatore affinché si riappropri della propria capacità ermeneutica e rammemorante, rifiutando di farsi veicolo, assieme a certa fotografia, di codifiche imposte dall’alto.
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Annarita Curcio
Le icone di Hiroshima. Fotografie, storia e memoria
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Roma 2011
Pagine 131