ll tema della mostra fotografica -visitabile sino al 20 maggio alla Loggia degli Abati di Palazzo Ducale a Genova- è la migrazione. Le foto di Uliano Lucas sono cariche di tempo e si riempiono proprio col passare del tempo di nuove informazioni che, aggiunte alle antiche, fanno la storia e narrano. E dunque il viaggio diviene lunghissimo e non semplicemente il trasferimento in uno spazio nuovo, certamente meno povero di quello lasciato. E i volti si fanno più espressivi, più veri, più vicini nonostante la distanza temporale, più eroici. Sono quelle identità anonime e ancora fortemente volitive a raccontare della speranza, dopotutto, piccina che coltivavano e della lotta per la sopravvivenza nella città del “miracolo economico” e non solo. Questa è la metacomunicazione che ha luogo alla Loggia degli Abati tra il visitatore che guarda le foto di Uliano Lucas e quelle antiche facce che tra speranza, disperazione e pazienza provano a vivere altrove, anche alla Loggia di Palazzo Ducale. Si tratta dei migranti italiani, che si spostano dal sud o dalla compagna riversandosi nelle città nordiche della nazione -Milano in primis- o che vanno all’estero, e dei migranti stranieri, che in Italia arrivano, gli stessi che dagli anni Settanta a oggi hanno arricchito il panorama etnico e culturale della nostra terra.
Lucas ci conduce per mano alla Stazione centrale di Milano. È il 1963 e ci indica gli emigranti. Poi ci fa entrare nelle case di questa gente durante il loro pranzo domenicale, più ricco e più felice del solito, ma ci racconta anche dell’occupazione di molte abitazioni, come nel 1974 in via Scesa a Milano. E cosa hanno di differente quei migranti calabresi a passeggio sul Lungo Po (Torino, 1972) rispetto agli stranieri arabi dei nostri giorni di cui spesso mal si sopporta il vestiario tradizionale? E poi il salto, il passaggio del testimone. Siamo negli anni Novanta e di fronte a noi c’è un lavavetri polacco che sta su una piattaforma sospesa a pulire una grande vetrata del Palazzo Campari (Milano, 1990). Il razzismo ritorna sotto altre forme, ma la paura è sempre la stessa, che i nuovi “rubino” lavoro, tradizioni, legalità e spazio. L’immigrato, nell’immaginario collettivo, rimane un barbaro che arriva per rompere un equilibrio sociale che conforta e protegge. E Lucas scatta una foto alla pubblicità progresso contro il razzismo, proprio mentre un anziano sta passando, forse un vecchio migrante italiano, e scatta ancora mentre due senegalesi attraversano la strada con i loro grandi sacchi pesanti (Milano, 2000). E ritorna in mente la fotografia di quell’italiano con lo scatolone in spalla e la valigia in mano immortalato da Lucas a Piazza Duca D’Aosta (Milano, nel 1968), quasi schiacciato dal Pirellone dietro di lui.
Ma a precedere le fotografie di Lucas, il cui reportage sulla migrazione parte dagli anni Sessanta, sono otto bellissime immagini sul decennio Quaranta-Cinquanta. Gli autori sono sette e le foto scelte sono davvero una poesia. Il punctum -quella puntura o ferita che, sosteneva Roland Barthes, solo certe fotografie provocano- si avverte potente, così come l’equilibrio e il movimento, che mancano a volte alle immagini di Lucas, qui invece sono sempre presenti.
Sono fotografie che ci raccontano della vita dei nostri avi, della fatica del lavoro, dello spazio familiare, della condivisione di cose, di luoghi, di sudore e di speranza con altri uomini, con gli animali e con i bambini. E così li vediamo partire con la motonave o con il treno della speranza, e dobbiamo dire grazie ai fotoreporter, ormai scomparsi, Riccardo Carbone e Giancolombo se questa visione è possibile. Vediamo dentro le case dei contadini (Enrico Pasquali, Pieve di Sant’Andrea, 1955), anche gli animali che con loro convivono (Tino Petrelli, Africo, 1948). Li vediamo in faccia e in fila per una foto ricordo dopo aver ricevuto il “pacchetto” in cambio del voto (Federico Garolla, Napoli, 1967): tramortiti, desolati, in colpa. Comprendiamo le ragioni e cerchiamo altrove i carnefici. E poi vediamo la fatica quando è tale che già osservare mette angoscia. Siamo nelle solfatare siciliane dove gli uomini lavoravano nudi per il caldo opprimente (Federico Patellani, 1942). Siamo nei campi dove il mietitore è al lavoro, proprio nell’attimo in cui sta falciando (Federico Zavattini, Tricarico, 1952). Ecco, queste foto spiegano il perché della migrazione, il perché dell’abbandono, il perché della partenza; spiegano che cosa significa genuina miseria quando è imputabile soltanto alla povertà del luogo materno.
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Uliano Lucas
Migrazioni. Il Lungo viaggio
Palazzo Ducale, Loggia degli Abati
29 marzo-20 maggio 2012