Cinema

ROCKY BALBOA

ROCKY BALBOA

Niente è finito finchè non è finito. “Rockyfili” di tutto il mondo, unitevi! Sembra proprio che Stallone abbia messo K.O. gli sbeffeggianti detrattori. Beninteso, non è niente di eccezionale, ma si tratta senza dubbio di un film di qualità, anche divertente, girato bene (con cineprese ad alta definizione), senza finzione hollywoodiana. Degna chiusa di una degna saga, non contando "ROCKY V", pellicola semi-vergognosa. Sceneggiato e diretto dallo stesso Stallone, la storia vede il nostro eroe a dirigere un ristorante, i cui avventori sono più curiosi in cerca dell’aneddoto che fans della cucina dell’“Adrian’s”. Rocky viaggia verso i 60, la gloria sta svanendo e l’unica compagnia sono i ricordi e il vecchio cognato Paulie, in verità più attaccato alla bottiglia che alla famiglia. Il figlio Robert, invece, pressato dalla fama del cognome, è volutamente diverso da lui e tiene il padre a distanza. Insomma, Rocky sta invecchiando, e come tutti quelli che hanno fatto della giovinezza e della forma la propria ragione di vita, si sente infelice. Lo schiribizzo in più glielo dà la TV: viene mostrata una simulazione al computer tra Dixon, l’attuale campione in carica vs. il Rocky dei tempi d’oro. La boxe è la sua felicità e quindi che fa? Richiede e ottiene (fantascienza!) la licenza per tornare a combattere e quando gli propongono un incontro proprio con Dixon, pugile abituato a vincere facile con avversari brocchi, il nostro eroe accetta. Beninteso, l’evento “The Rage against the Age” (!) è più una trovata pubblicitaria, quindi niente botte vere, si raccomandano i vari menager. Invece, manco a dirlo, Rocky un po’ le prende ma poi le dà, per far vedere al giovinetto qual è il leit motiv della sua vita: tirare fuori l’anima sul ring quando si è in difficoltà. Stallone scrive un pò la sua autobiografia e se il film è un tantino scontato – ma neanche troppo - va riconosciuto che è apprezzabile per l’autoironia e la consapevolezza. Non ci viene presentato il tipico vecchio stizzito e sbruffone, ma un uomo pacato, più maestro di vita che avversario, più saggio che non impulsivo. Che non gli venga un’ischemia al secondo round è un po’ fantasioso, che poi non gli venga data l’estrema unzione al terzo è pura fantascienza, ma tutto sommato c’è un che di realistico che te lo fa apprezzare e non ti imbarazza, che ti fa sorridere e anche un po’ amare questo gonfio sessantenne dall’inconfondibile sguardo. Realismo sotto molti aspetti: vero pugile l’avversario, veri gli speakers dell’incontro, vera la folla al Mandalay Bay Resort di Las Vegas (tra cui un cameo di Mike Tyson): per le riprese, infatti, Stallone ha sagacemente sfruttato il frame di un vero incontro di boxe, riprendendo prima, dopo e durante gli intervalli. Un film amarcord (basti vedere la locandina!) con tanti richiami nostalgici però ben inseriti, come la corsa sulla scalinata, le carcasse di carne, la mitica canzone. Un po’ meno amarcord il doppiaggio, ma qui è un fattore puramente nostrano: l’inimitabile Ferruccio Amendola non c’è più e si sente. Forse era meglio farlo doppiare ancora a Gigi Proietti come nel primo film, ma tant’è… forse qui non ci ha messo mano Stallone.