Nostalgia senza alcun ricatto morale nella riuscita biografia del geniale duo comico.
In Triste, solitario Y final, primo romanzo di Osvaldo Soriano, un anziano Stan Laurel ingaggiava il detective Philip Marlowe per indagare sui motivi del declino artistico della coppia Laurel & Hardy. Ed è proprio il declino, in questo caso non solo artistico, il tema portante di Stanlio e Ollio, il bel biopic di Jon S. Baird presentato alla Festa del Cinema di Roma a ottobre e da qualche giorno, finalmente, nelle sale italiane.
Il tramonto delle stelle
Ambientato nel 1953, anno in cui i due comici, ormai sul viale del tramonto artistico, intrapresero una lunga tournée teatrale in Europa, il film si concentra sulla parte finale della loro carriera. Ed è liquidando gli anni d’oro dei successi con un lungo piano sequenza iniziale, che dal camerino porta i due attraverso gli studios fino al set de I Fanciulli del West, che permette alla narrazione di concentrarsi sull’umanità dei personaggi, accennando solo di rado all’iconografia “mitica”, sicuramente ingombrante e nei biopic sempre a rischio di “beatificazione” (vedi Bohemian Rhapsody).
Anche il cinema, inteso come forma di intrattenimento, viene quasi accantonato per poter meglio permettere ai personaggi “umani” di risaltare nella trama. La settima arte infatti compare raramente e soltanto a evidenziarne il lato peggiore legato agli aspetti più commerciali e meno artistici (le liti e la separazione dei due per questioni economiche, il manifesto incombente della “nuova coppia comica” formata dagli insipidi Abbott & Costello, da noi Gianni e Pinotto, divi per tempi più “moderni” che nulla hanno mai avuto di geniale e men che meno di comico).
“Come due piselli in un baccello”
E’ in questa rappresentazione onesta e rispettosa (ma non “santificatrice”) che Stanlio e Ollio scorre placido e piacevole per i suoi 97 minuti, quasi che il regista abbia fatto propri i tempi e i gesti stessi di Laurel & Hardy. Il film vive così di momenti dilatati, mai frenetici, con l’obiettivo finale ben a fuoco, ovvero il disvelarsi di due personalità differenti – forti di un’amicizia e di un “amore” durato trent’anni - colte nella fragilità dell’approssimarsi della vecchiaia e del tramonto artistico. Il tutto senza l’intenzione dichiarata di portare il pubblico alla liberatoria lacrima finale attraverso il rituale percorso "successo–caduta-redenzione", tanto caro al genere biografico.
Ed è proprio qui che Stanlio e Ollio sorpassa biopic più altisonanti: la commozione arriva silenziosamente, senza apoteosi, e sta tutta nei giochi d’ombra del balletto finale, ancor più commovente proprio perché lasciato in gran parte alla nostra immaginazione/memoria di spettatori. Le malinconiche ombre di John C. Reilly e di Steve Coogan (inutile dire grandissimi) diventano così quelle dei “nostri” Stanlio e Ollio, visti e rivisti, amati e poi dimenticati, e ora qui a ricordarci, ancora una volta, dove stava la loro semplice grandezza.
Perché vederlo
Per l’onesta con cui viene descritta la personalità, gli errori e l’umanità di due personaggi conosciuti quasi esclusivamente attraverso la loro produzione artistica.
Perché non vederlo
Se si è alla ricerca di biografie trascinanti, pleonastiche e “incensatrici“ (abbiamo già citato Bohemian Rhapsody?...occhio, sta arrivando anche Rocketman!), meglio rivolgersi altrove. Il ritmo di Stanlio e Ollio è quello del racconto, non quello di un videoclip.