Se a qualcuno che conoscesse appena le vicende del filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein gli si chiedesse di immaginare un film che in 75’ ne riassuma la vita e il pensiero, questo qualcuno non ci metterebbe molto per asserire l’impossibilità del compito.
Derek Jarman ci prova e il suo Wittgenstein (1993)è un capolavoro. Perfetto scrutatore della psiche, prova ne ha data in Caravaggio (1986) e Riccardo II (1992), Jarman sa che il teatro messo al servizio del cinema è il modo migliore per caricare le immagini di un senso quanto più prossimo al pensiero e la vita del filosofo tedesco. Vediamo in che senso.
La voglia di semplicità e rigore che ha accompagnato Wittgenstein nel corso dei suoi studi filosofici vengono traslati in un linguaggio cinematografico privo di fronzoli, dove regna il semplice minimalismo della messa in scena teatrale su sfondo nero. Vivaci solo i colori, la loro intensità è quella dei “fatti” rappresentati. Vengono appunto rappresentati i “fatti” non le “cose” della vita di Wittgenstein, e l’operazione è puramente wittgensteiniana.
Epurato il mondo da ciò che non poteva essere ridotto a forma logica, è il giovane Wittgenstein che se ne rallegra, spirito mai sopito che accompagnerà la vita del filosofo. Tra questo e l’altro mondo, in dialogo diretto con Dio e con un marziano, spocchioso e tormentato, Wittgenstein viene scisso con l’escamotage di un alter ego di sé fanciullo (Clancy Chassay), che fa da narratore delle vicende e matrice intellettuale delle sue idee filosofiche. Wittgenstein è continua tensione verso l’altro, verso una dimensione altra da quella mondana. Il marziano ne è un’icona, ironica (ironica la sua sentenza «il mondo esiste, così come i marziani»); il suo pensiero mistico una dimensione insondabile.
Wittgenstein adulto (Karl Johnson) vive le vicende della tormentata vita del filosofo. Insegnante a Cambridge, solitario tra i fiordi, giardiniere in monastero, maestro elementare, volontario di guerra. La frattura tra sé e il mondo appare insanabile, qualsiasi soluzione gli si ritorce contro, ogni tentativo è fallimentare.
Persino la sua omosessualità lo tormenta. Una pulsione istintiva che lo allontana da una vita «condotta onestamente». La sua intelligenza gli suggerisce che non ci sia nulla di sbagliato, ma l’intelligenza non basta, è insinuata dalla vergogna.
Nel finale, come in dialogo con la sua coscienza, Wittgenstein ripercorre la sua vita prossima alla conclusione. La sua lotta sta per giungere al termine e aver saggiato tutti gli aspetti della vita che riteneva formativi per un pensiero scevro da influenze preconcette lo portano a concludere di aver «vissuto una vita meravigliosa».
Un film che dal punto di vista prettamente biografico forse non è ineccepibile, ma si è detto che il suo grande merito è quello di essersi avvicinato mirabilmente al pensiero di uno degli autori più controversi e complessi della filosofia del Novecento. Aiutato dall’autorevole consulenza del Professor Eagleton, riesce a creare uno stupendo parallelismo tra linguaggio cinematografico e pensiero filosofico.
Cinema