Progetto Clone, © Luca Curci
Basta girare per i locali del centro per verificare, citando Achille Bonito Oliva, questa nuova «strategia dello sconfinamento», perché - dice il critico - «non esistono più luoghi deputati per l’arte, che vuole vivere sia il clima diurno che quello notturno della città». Quel che viene naturalmente da chiedersi è perché la formula arte-cibo riceva oggi un’attenzione così marcata. La comunanza fra pensiero e palato ha, senza dubbio, radici antiche e il convivio fa da sempre parte del naturale dispiegarsi della riflessione dialettica. Ce lo diceva Kant nel suo Antropologia pragmatica che «il gusto, a differenza dell’olfatto, ha il privilegio di promuovere la comunanza del godimento» dal momento che «già all’entrare dei cibi nel tubo gastrico esso giudica in precedenza la loro salubrità, poiché questa è connessa alla loro gradevolezza, che è come un presagio sufficientemente sicuro di quella, qualora la sazietà e la gozzoviglia, a cui cede la gola, non abbiano corrotto il senso».
Eppure, nel terzo millennio, il tema del cibo affiancato all’arte sembra essere dotato di una conflittualità specifica, particolarmente vicina allo spirito dei tempi.
Compressi, infatti, come siamo, da una sequela infinita di diete stressanti e da tessuti adiposi ingombranti che sconfinano nel dilagare dell’obesità (non più solo, purtroppo, made in Usa), affrontare il tema del cibo significa rimandare i termini della questione direttamente a inquietudini esistenziali agitate in territori diversi da quelli in cui la vita sembra consumarsi senza intoppi. Come, per esempio, le palestre.
Progetto Clone, © Fabiana Roscioli
Le palestre, cioè quei luoghi teatro di pratiche spesso forzate sul corpo, esposto alla fatica dell’esercizio fisico costante, che viene segmentato severamente nel tentativo agguerrito di raggiungere per ogni sua parte un risultato: una spaventosa quantità d’energia da catalizzare in attività scandite da attrezzi e macchine delle più disparate, per disciplinare i moti del proprio vigore disordinato in pratiche standardizzate contenente ciascuna la propria particolarissima funzionalità.
Ogni sedentarietà cronica, lungi dall’essere vissuta come una rara virtù dello spirito, viene a tutti i costi bandita, mentre è il dolore muscolare che segue ad ogni allenamento la vera cartina di tornasole del proprio carattere, della propria incrollabile determinazione, nonché il sintomo evidente di un miglioramento in atto, la sigla conclusiva di una partita da poco chiusa e subito riaperta. Si irreggimenta il proprio allenamento, magari affiancati dal nostro personal trianer che diventa un po’ il nostro guru (qualcosa di simile ad un incrocio fra un fidanzato da conquistare a suon di pedalate e l’amica del cuore, a cui affidare le nostre confidenze sugli etti in esubero).
Ogni scadenza impone così di brandire un cronometro ultra esatto e pompare a più non posso, anche correndo il rischio della nausea e del vomito. Tutto questo, per ovviare allo spiacevole inconveniente di vedere la propria pancia beatamente gonfiarsi come bubble-gum rosa confetto e farsi gioiosa aureola del basso ventre. Un corpo che si modella nell’amabile grassezza del piacere, con tutta la sua deliziosa mollezza (e con tutti i gorgheggi tubolari annessi e connessi) è, infatti, quanto di più pericoloso possa esserci per sentirsi degli emarginati ingombranti. Vedere la propria pancia sconfinare, usurpare spazio, sommergere territori dove le relazioni sociali dovrebbero avvenire senza paure di sorta costringe a misurarsi senza posa con la fatica sul corpo. Altrimenti?
Altrimenti ce lo spiega Umberto Galimberti nel suo libro I vizi capitali e i nuovi vizi, edito da Feltrinelli (pp. 132, euro 7,50). Un capitolo è dedicato, ovviamente, alla Gola.
Se gli enigmi dell’anima più profondi si agitano nella dimensione del corpo, le patologie diffuse come l’obesità e l’anoressia sono indicatori importanti di una società non funzionante. «Quando il cibo da soddisfazione alimentare diventa una prova di esistenza», scrive Galimberti, «allora si incarica il cibo di tenere un altro discorso che non gli compete e per il quale non dispone delle parole. Per questo le tecniche e le diete naufragano, in gioco non è la gola, ma l’insicurezza circa la propria esistenza che non ha trovato dove ancorarsi».
Come la bulimia è un modo per esistere e «le sensazioni violente provocate dall’assunzione di cibo consentono ad un’esistenza evanescente di recuperare sostanza e riempirsi di gioia, certamente breve, ma intensa, selvaggia, essenziale», così l’anoressia è un tentativo di raggiungere la spiritualità estrema, astenendosi dal cibo che «serve solo ad ottundere la mente, dal sonno che è solo una perdita di tempo, dal sesso che trasuda il corpo».
Se questo è vero, il cibo oggi è però diventato qualcosa di più che l’espressione di un rapporto non sano con noi stessi, vissuto nel disagio di una particolare biografia.
La cronaca degli ultimi anni lo ha infatti portato prepotentemente alla ribalta come teatro d’inquietudini collettive striscianti, dalle mucche pazze ai polli alla diossina fino ai cibi geneticamente modificati: abbiamo imparato giorno per giorno, tutti, a diffidare del nostro piatto quotidiano, rifugiandoci in un ricettario d’occasione che ci aiuta a valutare ciò che è ancora commestibile da quello che non lo è; oppure a fare spallucce secondo la logica qualunquista del "tanto oramai dove caschi, caschi male" e a tirare avanti, brandendo senza patemi forchetta e coltello. Oppure, ancora, a spulciare con piglio certosino le etichette di tutto lo scatolame del caso (e, una volta apparecchiata la tavola con la genuinità migliore possibile, a stramazzare a terra per una bottiglia d’acqua sospetta).
In ogni caso, il cibo non è più quella presenza silenziosa e discreta di un intervallo canonico, messo lì a scandire lo scorrere di una giornata, vero e proprio punto di fuga alle insidie del più acuto languore di stomaco.
Oggi il cibo, vuoi per le routine giornalistiche, vuoi per i modelli estetici, suscita davvero una vera e propria brama degli occhi, uno sguardo attento a soppesare peso e forme, colori e date di scadenza e confezione, provenienze e arrivi.
E’ dunque inevitabile riversare sensibilità e percezione intorno al piatto, come anche intelletto e riflessione.
Così, anche l’Università ha aperto di recente le porte al cibo con un ricco convegno svoltosi il 19 aprile scorso dal titolo Comunicare il Gusto. Dove università ed istituzioni comunicano con il mondo gastronomico organizzato dal Dipartimento di Sociologia e comunicazione, al Centro congressi de “La Sapienza” (via Salaria 113). Un chiaro segno, questo, di come ormai la gastronomia, per il peculiare ruolo che si avvia a rivestire nella nostra società, deve avere le sue strategie di costruzione dei messaggi e il suo apparato di professionisti della comunicazione per valorizzarne al meglio il suo variegato universo.
Saperi e sapori, dunque, mescolati insieme per analizzare e ricostruire in un quadro dinamico la cucina e la sua potenzialità, anche in termini di sviluppo di nuove occasioni di lavoro e nuove professionalità. «Gli alimenti - dice Mario Morcellini, direttore del Dipartimento - rappresentano una metafora decisiva di tutto ciò che noi prendiamo ed "assumiamo" dall’ambiente esterno, e più precisamente dal nostro ecosistema culturale. (...) Mangiare, bere e produrre in maniera riflessiva, ragionata, in simbiosi con le esigenze dell’ambiente geofisico ed umano. E’ la prospettiva enogastronomica dei "tempi moderni"».
Il cibo, dunque, come fenomeno culturale ma anche come strumento di formazione universitaria per futuri operatori di scienze e cultura enogastronomia con competenze specialistiche su più fronti (dalla conoscenza delle problematiche di filiera fino alle dimensioni caratterizzanti la comunicazione del settore).
Essenzialmente, conclude Morcellini, «bisogna porre una particolare attenzione alla comunicazione pubblica e all’informazione, nonché ai nuovi principi di marketing territoriale e delle politiche locali. In altre parole, alla gestione della modernità. In questo contesto la comunicazione acquisisce la forza simbolica dell’immagine del prodotto intrecciata al suo territorio. Il cibo diventa parte del nostro rapporto con il mondo, acquisisce le valenze di un sistema di comunicazione, si rivela un originale "display" dello specifico locale in un’incessante dialettica con le dimensioni globali».
Senza scomodare Lévi-Strauss, la cucina come elemento di civiltà è insomma, ormai, qualcosa di davvero acquisito, anche se l’attenzione dell’ambito accademico risulta essere un dato del tutto significativo di una riflessione più ampia nel dibattito intellettuale che non in passato, quando una visione organica della situazione era magari solo appannaggio dei gran gourmet.
Con buona pace di Antonella Clerici (deliziosa, per carità!, nel suo muoversi leggiadra fra pentole, fornelli e ragù), la cultura della cucina è ancora però tutta da divulgare, e certo non esiste solo Vissani a detenere lo scettro di mago del buongusto.
La cultura sulla cucina, per essere trasmessa, può trovare una via di mezzo fra l’estremo tecnicismo dei manuali e la rarefatta quanto impalpabile e ridondante versione del mezzogiorno televisivo se si arriva ad acquisire anche la consapevolezza che il cibo è a tutti gli effetti un medium di comunicazione da progettare nei suoi confini specifici, per delimitare un settore che, a detta degli esperti, è letteralmente “esploso” negli ultimi quindici anni.
E mentre linguaggi specialistici e lessici nuovi e poco codificati appaiono su decine di pubblicazioni, libri o guide, ci si affretta a studiare anche il design del cibo, la sua evoluzione estetica, per rendere il cibo un medium fruibile anche con gli altri sensi. Ci si è resi conto, cioè, che la comunicazione sul cibo è anche, in senso lato, "architettura del gusto".
Prima e seconda edizione del libro di Buzzi
Ed è proprio, guarda caso, di un architetto, Aldo Buzzi, il delizioso L’uovo alla Kok (scritto proprio così, evidente rimando alle possibili storpiature da una lingua all’altra), edito da Adelphi (pp. 154, euro 9,00), che vanta quattordici disegni del grande disegnatore e umorista, certamente uno dei maggiori del Novecento, Saul Steinberg, che conobbe lo scrittore al Politecnico (dove si laureò in architettura), e con cui istaurò una solida amicizia (solo temporaneamente interrotta dalle leggi razziali che lo costrinsero a lasciare l’Italia).
Nel libro L’uovo alla Kok sono intrecciati «consigli che non si trovano nei libri» e ricette a ricordi e divagazioni libere, in un tono familiare e pieno di spirito: la Sopa de lima, Gli sparagi di Augusto, l’Uova sui porri, il Brodo di cornacchia, la Tiella, l’Insalata all’acqua, la Finanziera, sono solo alcune delle circa quaranta ricette con cui l’autore compie una curiosa incursioni nella letteratura e nella sua esperienza personale attraverso la memoria, consegnandoci un bizzarro manuale che è anche, anzi, soprattutto, un invito a godersi la vita con il ritmo del viaggiatore a caccia di osterie e posti tipici. Attraversamenti e soste e riflessioni e pensieri gastronomici e curiosità (sembra che Kafka fosse uno dei quei tipi che s’accontentano di una noce, un frutto, un piatto di scorzonera, magari anche una fetta di torta di mele, in viaggio) fanno di questo bizzarro libro una continua fonte di divertimento, nonché un ibrido singolare al confine fra la narrativa e il ricettario, capace certamente di comunicare il gusto della parola, oltre che della gola.
© Saul Steinberg & Adelphi editore
Un brillante esempio di come rappresentare il cibo, comunicarlo, significa, senza dubbio, legarlo fortemente ad un contesto, ad un territorio (fisico e immaginario). Qui, il territorio è, prima di tutto, quello di una scrittura personale e pulita.
Viene in mente quel disegno di Saul Steinberg (non contenuto nel libro) in cui un’unica linea retta cambia significato secondo la situazione che, in rapida sequenza, attraversa, facendosi superficie dell’acqua, corda da bucato, marciapiede, deserto, binario della ferrovia, soffitto del salotto.
Chissà il cibo, attraversando le comunicazioni del futuro, che fine farà.