Teatro

Lo chiamano teatro civile. E qualcosa vorrà pur dire.

Lo chiamano teatro civile. E qualcosa vorrà pur dire.

Lo chiamano teatro civile. E qualcosa vorrà pur dire. Perché in un mondo in cui i punti di riferimento continuano a cadere e tutti vogliono tagliare i ponti col passato, bello o brutto che sia, c’è chi ancora ci vuol far ricordare da dove veniamo, quali sono le nostre radici. In due parole, Marco Paolini. Giovedì sera RaiTre ha trasmesso la prima puntata di Album, l’ultimo lavoro dell’attore veneto. Una serie di spettacoli che sono stati in giro per l’Italia negli ultimi mesi, riadattati per il piccolo schermo e trasmessi dalla terza rete così come i brevi spezzoni di “Teatro Civico” che facevano da introduzione alle puntate dell’edizione 2003 di “Report” di Milena Gabanelli. Ciò che lascia a bocca aperta è la capacità di Paolini di fare cose straordinarie attraverso scene di vita ordinaria. Uno spaccato vero, di una realtà che chi l’ha vissuta può riconoscere e chi non l’ha vissuta può invece quasi toccare con mano. Questo perché le parole, i gesti di Paolini sono come fotografie, immagini che si dipingono nella mente degli spettatori e dipingono un mondo che oggi non c’è più ma che rappresenta l’anima vera della provincia italiana. Ed ecco allora che la piazza, il bar, la squadra del paese, escono dalle menti di chi c’era e dalle parole di Paolini per creare una storia. Una storia che parte dalle manifestazioni di piazza di metà anni ’90 per tornare con la mente a venti anni prima, ad un paese della provincia veneta, ad un campo di rugby, ad un sistema di valori che oggi ci sembra lontano anni luce. Passando, attraverso un abile montaggio televisivo, dal vero campo di rugby di Rovigo (teatro dell’ultima scena della storia raccontata) al teatro vero e proprio, chi guarda è sottoposto ad un continuo ping pong attraverso i ricordi di Nicola, disilluso militante antiberlusconiano che ricorda i suoi vent’anni fatti di sudore, amore (mai consumato con Monia, che ritrova tra i manifestanti), bombe (quella di Piazza della Loggia a Brescia nel ’74), sport e politica. Un viaggio serio, spesso impietoso, all’interno di una realtà giovanile con i suoi dubbi, le sue contraddizioni, le sue grandi speranze ancora lontane dall’essere vanificate. E nel far questo, usa il dialetto. Che sarebbe raccontare la provincia italiana senza usare le vere parole, i veri suoni che ne sono uno dei tratti più distintivi? E proprio in questo forse Paolini dà il meglio di sé, ricordando a tratti addirittura il Dario Fo di “Mistero Buffo” nella sua mimica, nella sua capacità di espressione dei sentimenti. Un teatro fatto col cuore, o forse meglio con lo stomaco. Alla riscoperta di cose semplici e vere. Un album di ricordi da sfogliare, senza nostalgia ma con la consapevolezza di portarsi a casa molto di più delle risate che Paolini riesce a strappare al pubblico. Un’ironia sottile, che inchioda gli spettatori ad una storia che potrebbe essere di chiunque, e proprio per questo è di tutti. E che consacra una volta di più Marco Paolini come il moderno cantore della gente comune.