L’AMORE E NIENT’ALTRO
Così fan tutte è apparentemente caratterizzata dal ritorno agli schemi tradizionali dell’opera buffa settecentesca, con personaggi fortemente tipizzati e trattati come veri e propri burattini da quel regista factotum che è Don Alfonso (alter ego di Da Ponte), e rappresenta un punto di arrivo, forse l’esito più raffinato della drammaturgia mozartiana, prima dello sconfinamento nel romanticismo con la Zauberflöte, dove prevale la simbologia esoterica senza mai dimenticare la componente umana. Però la complessità dell’intreccio ed il realismo psicologico dei due precedenti lavori dapontiani (Nozze di Figaro e Don Giovanni, che, movendo dalla tipologia della commedia d’intrigo, vanno di fatto ben oltre la settecentesca contrapposizione fra i generi serio e comico) lasciano qui spazio a tipologie drammatiche meno contaminate, poiché, insistendo su molteplici livelli di lettura, Così fan tutte spazia dal modello dell’opera seria (“Come scoglio”), alla parodia farsesca (i due episodi di Despina travestita), dalla intensa espressione dell’affettività soggettiva (“Un’aura amorosa”), all’impersonalità della musica sacra (“E nel tuo, nel mio bicchiero”). Si legano quindi un’esperienza filosofica e morale tipicamente illuministica e una sentimentalità già totalmente romantica.
Solo una successiva, compiuta maturazione dell’estetica della citazione e del collage, insieme a temi letterari tipicamente novecenteschi come quelli della finzione e della maschera, ha consentito di comprendere tutti i significati, magari solo intuiti da Mozart-Da Ponte, presenti nell’opera. Si è scoperto che dietro la vacua, frivola, agrodolce commedia la musica celava spunti di riflessione di una modernità sbalorditiva sull’essere innamorati, sul coinvolgimento erotico, sull’atteggiarsi dell’uomo, sulla paura di perdere l’amore e sul costante esporsi al rischio della finzione. Così fan tutte inquadra da un angolo prospettico nuovo e attualissimo il tema fondamentale di tutto il teatro mozartiano, che è l’indagine sui modi e sulle ragioni dell’agire umano, l’indagine sull’amore. L’amore e nient’altro.
Come Nozze di Figaro, Così fan tutte dura un giorno, un solo giorno in cui i personaggi vivono un’iniziazione, un apprendistato: la perdita delle illusioni e la scoperta dell’amore vero. L’iniziazione è un percorso: l’incantesimo amoroso può essere un’illusione, una chimera, però il sentimento d’amore esiste, se si ha la fortuna di incontrare la persona giusta al momento giusto, si conquista con fatica, passando attraverso vari gradi di consapevolezza. Basta volerlo. Basta crederci. E non finirà. Mai.
Mozart ha composto Così fan tutte in un’epoca instabile, di grandi cambiamenti, una fine di secolo per certi versi simile a quella appena vissuta, in cui si guarda al passato con nostalgia. Una nostalgia che ha affascinato il regista, che ha preferito, alla solita luce solare che non lascia luogo ad ombre, un tono crepuscolare, dolceamaro, in cui tutto finisce bene ma con qualche riflessione malinconica. Questa Così fan tutte è la prima opera di cui Mario Martone è stato regista, nel 1999. Come è stata la prima opera a cui io ho assistito (a Salisburgo, l’allestimento storico di Michael Hampe) e, per uno strano scherzo del destino, si è legata inscindibilmente alla mia vita. A tutt’oggi. A Napoli.
Il palcoscenico è vuoto. E buio. Come la vita senza l’amore. Una pedana di legno al centro, che sporge sulla buca dell’orchestra. Nel grande spazio, nel grande buio, una finestra, enorme, aperta su un mare placido e rasserenante. Come la vita con l’amore. Quando non hai bisogno di niente per essere felice. Pochi mobili, delle sedie, un divanetto, un dondolo, un paravento, una cassapanca (quando c’è l’amore non serve nulla per essere felici, quando non c’è l’amore nulla serve per evitare di essere infelici): mobili “non per arredare o scenografare bensì per fornire ai cantanti i luoghi necessari ai momenti del racconto.. vestizioni e travestimenti a vista.. attese, pause e raccordi”, come ricorda lo scenografo Sergio Tramonti, mentre gli splendidi costumi sono di Vera Marzot e le appropriate luci di Pasquale Mari.
Due “braccia” circondano la buca dell’orchestra, aderendo ai palchi di proscenio e avvicinando i cantanti al pubblico, creando un’atmosfera cameristica. Sulla pedana solo due letti, sfatti e disordinati come la passione d’amore, intorno ai quali si svolge tutta la vicenda: pochi elementi allusivi che bastano per suggerire un ambiente, il quale non richiede di essere definito realisticamente in una vicenda così volutamente artificiosa.
Martone presenta qui molte delle idee registiche che poi riprenderà per i successivi Don Giovanni (2002) e Nozze di Figaro (2006), con esiti ottimali: lo spettacolo è splendido.
Un’opera così non poteva essere ambientata che a Napoli, “Napoli carnale e pagana. Sfrontata. Una città che non si tira indietro di fronte al richiamo dei sensi, non ha paura del corpo”, scrive Martone nel programma di sala (“Nel petto un Vesuvio d’avere mi par!”). Napoli!
Un’impronta precisa allo spettacolo, un forte segno registico. Forte e discreto al tempo stesso, rispettosissimo dell’opera e attento alle sfumature. In scena c’è un solo elemento simbolico, il letto, anzi, nella simmetria che caratterizza l’opera, i letti, due letti disposti paralleli in modo geometrico sulla pedana: è la stanza di Fiordiligi e Dorabella, intorno a cui si svolge l’azione in maniera garbata e minimalista, pochi elementi ma essenziali, una grande importanza ai movimenti e alle denotazioni caratteriali. I sentimenti in primo piano. L’amore e nient’altro. (Ma in fondo serve altro, se c’è l’amore?).
Nella prima scena Don Alfonso, Guglielmo e Ferrando saltano fuori dalla barcaccia destra; mentre si svolge la diatriba e la scommessa fra i tre, le due sorelle entrano in scena dal fondo, con cappello, valigie e ombrellino, come di rientro da un viaggio, si spogliano e si mettono a letto. In modo molto efficace si assiste a una scena non reale ma bellissima: i ragazzi innamorati si avvicinano alle loro belle nei letti, rimboccano le coperte, si siedono di lato, le accarezzano con la immateriale e soave leggerezza che solo l’amore consente, come se, desiderando essere vicino a loro, si sentono davvero vicino a loro (Richard Bach: “può forse una distanza materiale separarci davvero da chi amiamo? Se desideri essere vicino a chi ami non ci sei forse già?”). Un momento di tenerezza che rende tangibile l’amore, tanto che viene una voglia pazzesca di avere lì vicino la persona amata (i moderni sms sono succedanei non idonei a riempire quel vuoto). Nella scena seconda i ragazzi aspettano in palco, ma fuori scena; Fiordiligi si sveglia e calcando vistosamente sul secondo “Ah, guarda, sorella”, sveglia anche Dorabella ed insieme cantano “Se questo mio core mai cangia desio, amore mi faccia vivendo penar”. Martone è artista intelligente e sensibile e lavora molto sulla recitazione dei cantanti, per cui il momento della partenza è vissuto come una tragedia incolmabile, giustificata ampiamente, perché per chi si ama davvero la partenza è davvero un momento tragico, sui bellissimi colori orchestrali di flauto e fagotto: “Ah, no, no, non partirai!/ No, crudel, non te n’andrai!/ Voglio pria cavarmi il core!/ Pria ti vo’ morire ai piedi!”. Poi, come nella commedia dell’arte, un telone viene tirato su un cavo steso e la barca attraversa il palcoscenico, portando via Guglielmo e Ferrando verso la “bella vita militar”. La partenza degli amati addolora le ragazze e l’esecuzione di “Soave sia il vento” sugli archi fruscianti e ondulanti è struggente, con il finale in cui si abbracciano Don Alfonso al centro e le sorelle ai lati, per farsi coraggio, simile alla regia di Hampe, ma proprio bello, perché in un momento come quello si ha davvero bisogno di coraggio. L’ingresso di Despina pone subito l’accento sul ruolo più simpatico, con tutti gli orchestrali ripetono l’ahmmmm della cameriera che ha assaggiato la cioccolata. Quando il tentativo di corruzione da parte di Don Alfonso riesce, Despina “morde” la moneta per verificarne l’autenticità, come nella celebre regia di Hampe. Movimentato il parapiglia, causato dall’arrivo degli Albanesi nella casa: volano cuscini, colpi di ombrello, secchiate d’acqua, una scena particolarmente impegnativa per i cantanti che però, tutti, dimostrano notevole disponibilità ai giochi scenici. Il quadro che si suppone ambientato nel giardino è efficacemente reso con le sorelle in altalena e le luci che simulano il sole attraverso le fronde: “Ah, che tutta in un momento si cangiò la sorte mia!… Ah, che un mar pien di tormento è la vita omai per me!… Finchè meco il caro bene mi lasciar le ingrate stelle, non sapea cos’eran pene, non sapea languir cos’è”.
Così finisce il primo atto. Nell’intervallo ho riflettuto sull’attualità di Mozart (nell’aver esplorato i lati oscuri dell’animo e del comportamento in un’epoca lontanissima dalla psicoanalisi) e di Da Ponte (nell’aver creato un libretto pieno di parole che ogni innamorato vorrebbe sentirsi dire).
Dopo le belle intuizioni del primo atto, il secondo prosegue in linea. Mentre Despina canta l’aria “Una donna a quindici anni” Fiordiligi e Dorabella guardano gli orchestrali con desiderio (da sottolineare che tutti i duetti di Fiordiligi e Dorabella sono cantanti in modo eccellente). Alla scena della serenata sono presenti servi, musici, popolo e tre angioletti a destra, con le alucce bianche. Davvero suggestiva l’esecuzione del rondò di Fiordiligi, con sei lampadari spenti che si stagliano a diverse altezze contro il fondale nero. Ed il senso di malinconia che pervade l’aria è subito spazzato via dal veloce duetto degli uomini, con Guglielmo che scappa via di corsa, poi si ferma, si gira di scatto, torna indietro veloce e canta “Donne mie, la fate a tanti”. Un’altra scena particolarmente emozionante e di notevole effetto è quella in cui Fordiligi si traveste da uomo per raggiungere l’amato (lei che può) e si specchia per vedere l’effetto che fa l’uniforme (di Ferrando!) su di lei; poi lo specchio viene illuminato da dietro, diviene trasparente e all’immagine di Fiordiligi si sostituisce quella di Guglielmo, il vero Guglielmo. E subito dopo, repentino cambiamento: anche Fiordiligi capitola e Guglielmo si appoggia sconsolato ad una delle paraste del proscenio, con infinita mestizia: Guglielmo è un giovane di sentimenti forse meno profondi che Ferrando, ma è un puro di cuore, sincero e innamorato e più che la conquista di Dorabella lo addolora il tradimento dell’amata Fiordiligi. Il celebre andante di Don Alfonso che dà il titolo all’opera è accolto da un ovazione del pubblico. E la fine è tra pali di legno infissi nella pedana che reggono teli bianchi, a isolare la parte centrale dal buio e dal vuoto circostante, ora che i ragazzi sono tornati. Ora che l’amore riposa tranquillo. Ora che non manca niente per essere felici. A Napoli!
L’orchestra ridotta a ranghi cameristici ha suonato con molta correttezza e sottolineato i giochi di calcolate equivalenze e di equilibrio della partitura, anche se Gerard Korsten non ha saputo imprimere una particolare vivacità alla partitura, soprattutto nel lento inizio dell’overture. Non particolarmente puntuali gli interventi del coro, anche nei movimenti, impacciati e scoordinati.
I quattro protagonisti sembrano uguali, simmetrici, poi si scopre che sono diversissimi tra loro.
Fiordiligi è la maggiore, la più responsabile e la più concreta delle sorelle. Carmela Remigio conferma di essere cantante di prim’ordine, splendida voce, registri curati e corposi, seppure viene fuori meglio nelle arie che nei recitativi. La voce è modulata ed espressiva, anche se dovrebbe curare di più la recitazione attoriale. La prova temibile di “Come scoglio” è affrontata con sicurezza, tanto nel registro grave, quanto nel centrale, di notevole spessore, quanto nell’acuto, con quelle temibili agilità. Anche il rondò “Per pietà, mio ben perdona”, che presenta grandi salti di voce, è cantato bene.
Laura Polverelli fa una Dorabella giovane e passionale, infuocata dall’amore e dall’ardore giovanile, privilegiando l’aspetto ironico e scanzonato del suo personaggio e lasciando a Fiordiligi una sensualità più languida e matura: infatti subito prima che il baritono canti “Non siate ritrosi occhietti vezzosi” gli occhietti di Dorabella sono luccicanti per l’interesse verso gli stranieri. L’esecuzione del recitativo accompagnato “Ah, scostati!” è perfetta e la seguente aria “Smanie implacabili” è affrontata con particolare intensità. Parimenti è convincente nell’aria del secondo atto, “E’ amore un ladroncello”.
Pietro Spagnoli è il migliore del cast. Con assoluta maestria impersona un giovanotto vivace che canta, recita, corre, salta, si arrampica e.. cade! Ad un certo punto è seduto sul parapetto della barcaccia ed è previsto che si sbilanci, cadendo dentro il palco. Ovviamente sopra il pavimento deve necessariamente esserci un materasso che attutisca il colpo, perché Spagnoli cade di schiena da quasi un metro di altezza. Nella recita a cui ho assistito io il materasso inspiegabilmente ed incredibilmente non c’era e Spagnoli ha preso una bella botta, rischiando di brutto, ma ha dimostrato una grande professionalità, forza d’animo e mestiere, per cui ha subito ripreso a cantare (credo che la maggior parte del pubblico non si sia neppure accorto dell’incidente), continuando ad essere un elemento affidabile e “solido” (in ogni senso, mi sia consentito il gioco di parole). Spagnoli aveva già più volte dimostrato di essere vocalmente padrone del ruolo e fisicamente perfetto nella parte, ma qui, forse anche grazie alla mano di Martone, ha acquisito una maggiore maturità al punto da far quasi scomparire Ferrando. Sul fronte vocale il suo Guglielmo, geloso e passionale, spaccone e impulsivo, è da ricordare: dal calcare alcune parole per sottolinearne la forza semantica nella struttura dialogica (penso a sdegno in “Deh, calmate quello sdegno!”, oppure pupille in “Vista appena la luce di vostre fulgidissime pupille”) all’aria del primo atto “Non siate ritrosi occhietti vezzosi”, accompagnata da ironia e scanzonato divertimento tanto che alla fine si butta sul letto scoppiando a ridere, all’aria del secondo atto “Donne mie la fate a tanti” eseguita in modo eccellente.
Kenneth Tarver è Ferrando, tenero e ingenuo, un biondino “di colore”, ma anche questa è la straordinaria magia del teatro. Tarver è però il più debole del cast, voce troppo leggera e, nonostante la buona pronuncia, appare non a suo agio nella nostra lingua. Nella bella aria “Un’aura amorosa”, assolutamente ininfluente nella trama e inserita solo come prova per il tenore, egli ha completamente dimenticato l’appoggio.
Andrea Concetti è bravissimo, un Don Alfonso giovane, i “crini” appena ingrigiti (e non “già grigi”), vicino per età ai ragazzi, rispetto ai quali si pone come quasi coetaneo, l’amico filosofo, più intelligente, che ha maturato più esperienze nella vita, più viveur. La sua prova è eccellente per recitazione e vocalità.
Elizabeth Norberg-Schulz è una Despina deus ex machina al pari di Alfonso, il ruolo reso più divertente e brillante, creando un accento bolognese per il dottore e una parlata nasale al notaio.
L’allestimento divertente ma crepuscolare di Martone mi ha affascinato, perché, a conti fatti, la tristezza in Così fan tutte c’è e sta nel fatto che la giusta distribuzione delle coppie è quella della finzione e non quella della realtà: le ragazze hanno, per una volta, intravisto la possibilità di scegliere il vero amore, in base alle proprie personali inclinazioni (Fiordiligi sensibile come Ferrando, Dorabella leggera come Guglielmo). Perché allora dovrebbero rinunciarvi?
Infatti Mozart lascia un dubbio, non specificando se Fiordiligi si rimetterà insieme a Guglielmo oppure se rimarrà con Ferrando, se Dorabella si rimetterà insieme a Ferrando oppure rimarrà con Guglielmo. La storia registica ha consolidato l’idea che le coppie iniziali di ricostituiscano. Anche se il contrario sarebbe meglio, perché, come detto, Fiordiligi scopre che Ferrando è più sentimentale, come lei, mentre Dorabella scopre in Guglielmo un amore più impulsivo, come lei. Ma la “ricomposizione” dell’equilibrio iniziale è d’obbligo, per tradizione, ordine/disordine/ordine. Tranne nell’allestimento recente berlinese di Peter Konwitschny alla Komische Oper, in cui Guglielmo e Ferrando scoprono di essere più inclini tra loro che verso le sorelle e fuggiranno insieme lasciando le ferraresi con un palmo di naso.
Perché questi esseri umani che amano magari una sola volta nella vita debbono ridiventare delle marionette nel quadro delle convenzioni? Perché il destino non può essere contrastato, persino cambiato, quando si ama?
Qui i letti sono stati accostati e un lenzuolo viene tirato alle spalle dei quattro che si lanciano sui letti, senza sapere chi con chi. Martone asseconda Mozart e Da Ponte e mantiene il dubbio, un dubbio sull’oggetto ma non sull’essere innamorati. Scrive Martone nel programma di sala: “Non a caso il ricongiungimento delle coppie originarie nel libretto non si esplicita, non vengono pronunciati mai in coppia i nomi degli sposi. Mi sembra un modo sottile di alludere a un disordine compiuto, con il quale non si può non fare i conti. A un abbandono prezioso e doloroso insieme”.
E in fondo è più credibile così. Che l’unica certezza sia quella dell’amore. Che l’arrivo dell’amore, quello vero, sia prezioso e doloroso insieme. Arriva qualcosa, arriva all’improvviso, arriva non previsto, arriva quando e dove proprio non te lo aspetti. Perciò ti senti smarrito. Inutile è cantare “Come scoglio immoto resta”. Le certezze vacillano, quello che ti sei forzatamente imposto sembra insostenibile nella sua vuota inutilità. E tu ti scopri fragile. Vulnerabile. Ma innamorato. E felice. Anzi, FELICE. Ti sembra che non ci siano certezze, se non l’amore. Tutto è certo e sicuro nell’amore. Non c’è minima traccia di dubbio nell’amore.
L’amore che non ha ragioni, l’amore che non dà ragioni. Né spiegazioni. L’amore. L’amore e nient’altro.
Visto a Napoli, teatro di San Carlo, il 2 aprile 2006