Cinema

Flags of our fathers - Di Clint Eastwood

Flags of our fathers - Di Clint Eastwood

Si è molto scritto, detto e filmato dell’”uomo qualunque”. Molto meno dell’”eroe qualunque”.
A regalarci un film che ne è l’ode ci ha pensato il settantaseienne, filato con l’acciaio dei sogni, che è Clint Eatstwood

“Flags of our fathers” (bello sarebbe stato anche il titolo tradotto: le bandiere dei nostri padri) pecca sicuramente di gigantismo.
In parecchie occasioni le scene di battaglia sono decisamente pletoriche ed esageratamente grandguignolesche. Roba da far sembrare un filmino per stomaci delicati il primo quarto d’ora di “Salvate il soldato Ryan”. In compenso, però, eleva l’ossimoro dell’eroe qualunque a status da Oscar.
E senza mai, ma proprio mai, scivolare nella retorica della non retorica.
Quando Eastswood cala cazzotti sul cuore lo fa sempre senza dare l’impressione di giocare la carta truccata della mozione dei sentimenti.
Uomini, i suoi soldati, insomma. Uomini impastati di luci e di ombre, di coraggio e vigliaccheria, patrioti per caso, ma soprattutto, prima di ogni altra cosa, come recita il pistolotto finale, commilitoni. Gente che combatte e muore per chi ha accanto a sé molto più che contro il “jap” o per la fatidica bandiera.

La bandiera del titolo è quella issata da sei ragazzi sulla vetta del monte Suribachi, al quarto giorno della battaglia di Iwo Jima, nel corso della seconda guerra mondiale.
Una battaglia che durò altri 31 giorni, con i giapponesi che tenevano saldamente la posizione, procurando ben ventiseimila morti tra i marines approdati sull’isola con gli ormai “familiari” (per i cinefili) giganteschi mezzi da sbarco.

Foto di propaganda voluta dal Pentagono per risollevare il morale a pezzi della nazione e rastrellare buoni di guerra a rimpinguare le casse esauste? Fortuna “plastica” di un fotografo che non imbroccò le facce dei sei soldati, ma si ritrovò su lastra un’icona dell’eroismo? Eastwood forse non cerca risposte a questo interrogativo.
Quello che gli interessa sono le vite dei tre sopravvissuti allo scatto.
Tre morirono. Gli altri furono richiamati in patria per essere portati – letteralmente – in tournée per l’America, fra conferenze stampa, majorettes, interviste e stadi osannanti.
Buttati sul mercato d’una guerra che aveva bisogno di sangue fresco non solo ad imbevere i terreni di scontro.
E i tre: il nativo d’America impersonato da Adam Beach (Oscar quasi sicuro), l’infermiere dal cuore straziato cui offre la maschera graffiata dai sensi di colpa l’eccellente Ryan Philippe, e il più scafato, la staffetta di Jesse Bradford (sex symbol prossimo venturo: un Tyrone Power di altrettanta malinconica bruna bellezza), si lasciano manovrare come marionette del grande apparato militare. Un po’ per senso del dovere, un po’ per debolezza (veri i cazzotti al plesso solare gli strappi di coscienza del più fragile o del più onesto, il pellerossa che si fa rimandare in prima linea), mentre anche lo spettatore si sente ricattare emotivamente dalle musiche marziali, i discorsi retorici e la perfezione poetica di quella foto che guida, ormai, sia le vite dei tre superstiti che – pare – il cuore del regista e del produttore (non a caso un grande burattinaio delle emozioni: Steven Spielberg).

Alla fine, dopo tanto sangue e cannoneggiamenti, più di quanto sarebbe giusto infliggere in un film, rimangono quei tre ragazzi. E le loro storie, fin’ora a noi sconosciute, di “eroi qualunque”. Non un film di guerra, dunque. Piuttosto un film sugli uomini e quanto di sotterraneo, pressocchè indicibile, ma sicuramente fortissimo, cementa i loro rapporti. Fino alla morte. Ed oltre.